Il cortocircuito positivo, innescato dalla mente fertile di uno chef come Nino Rossi, del Qafiz in Aspromonte, si basava sulla soluzione possibile di un enigma tutt’altro facile da risolvere: come dare respiro a un evento di alta gastronomia anche nella sua Calabria - che ne vanta così pochi. Anzi a dirla tutta: nessuno – ma senza fotocopiare format posticci, buoni per ogni luogo e replicati all’infinito; invece, innestando la contemporaneità a tavola in una ritualità forte che viene dalla storia locale ed è ancora fortemente innervata nel territorio, così da partorire un evento dotato di un’anima? La risposta all’interrogativo ha preso un nome: Pig Calabria, sottotitolo – infatti – “oltre la tradizione”.

In primo piano Rossella Audino e Nino Rossi, rispettivamente sommelier e chef del ristorante Qafiz di Villa Rossi, sede dell'evento. E' loro l'idea della regia di Pig Calabria (foto Gianluca Calisti)
Cosa sia stata questa kermesse, ospitata a
Villa Rossi di Santa Cristina d’Aspromonte – sede del
Qafiz, appunto – l’ha mirabilmente sintetizzato un gran gastronomo come
Gianni Rossi, incidentalmente padre di
Nino: «Per la prima volta qui si è capito che la frittola può essere preparata in modo diverso». Che poi vuol dire, in sostanza: per proporre la modernità, a tavola (e non solo), non è necessario disfarsi del proprio passato, piuttosto interpretarlo con occhi nuovi. E’ quello che hanno fatto gli chef ospiti di
Pig Calabria, nell’approcciarsi alla suddetta frittola, piatto tipico del Reggino, ma diffuso – a volte con nomi o metodi di preparazioni diverse – in tutta la Calabria, e non solo.

Gianni Rossi tra i ragazzi del birrificio Gli Sbronzi di Reggio Calabria
LA TRADIZIONE -
Cu si marita è cuntentu nu jornu, cu ammazza u porceju è cuntentu n'annu dice un proverbio calabrese: ossia, “chi si sposa è contento un solo giorno, chi ammazza il maiale è contento un anno intero”. Il maiale è ovunque simbolo di prosperità e potente riserva alimentare. Il rito contadino della sua uccisione – anche nei suoi aspetti cruenti, ancestrali: è la morte che assicura la vita, sangue della bestia che diventa linfa per l’uomo – fa parte del costume d’ogni area rurale italiana, proprio in queste settimane prima della Quaresima, e rimane consuetudine di festa – a esorcizzare lo spettro dei raccolti miseri e, quindi quello della fame - là dove la cultura contadina è ancora fortemente parte integrante della società, come sul nostro Aspromonte.
A CADDARA –
A caddara è il pentolone di
Panoramix, il calderone nel quale sobbolle la pozione magica. In questo grande paiolo di rame alimentato da legna di ulivo avviene la cottura di alcune parti di maiale nella sugna dello stesso animale, in maniera molto lenta, almeno sei ore. I druidi di questa liturgia profana sono stati
Enzo e
Renato Ioppolo, macellai a San Giorgio Morgeto, versante Nord dell’Aspromonte, a guardia della piana di Gioia Tauro, e
Arturo e
Antonio Polimeni, loro colleghi a Campo Calabro, più a Sud, due passi da Villa San Giovanni. I secondi ci spiegavano così la composizione della loro caddara: «Cotiche, orecchio, gambone, muso, reni, trippa, piedi, piedi. Il fegato va invece arrostito a parte (ed è una prelibatezza,
ndr)». Gli scarti del maiale, insomma. Il tutto sobbolle nello strutto, che scaldato si liquefa trasformandosi in un brodo che intenerisce persino le cartilagini e insaporisce la carne, man mano che i vari pezzi vi vengono immersi, secondo precisa successione. Pochissima acqua, non serve; tantissimo strutto, in questo caso circa 40 chili per altrettanto peso di frattaglie. Il tutto moltiplicato per due, ogni macelleria aveva la propria caddara.
Il banchetto ha visto come protagonisti mangiati una dozzina di suini, e mangianti alcune centinaia di persone, sarebbero peraltro potute essere molte di più, prenotazioni bloccate con giorni d’anticipo, c’era il tutto esaurito. Arturo Polimeni è macellaio da quando aveva 9 anni («Tradizione di zio e zia»), ora ne ha compiuti 74; il suo negozio Arturo (via Risorgimento 149 - Campo Calabro. Tel. +39 0965 757952) ha tirato su la saracinesca per la prima volta nel 1979. Ora lo affianca il figlio Antonio, grazie al quale la vecchia insegna è diventata anche braceria, dove consumare tagli perfetti, non solo suini.

La veduta dall'alto di Villa Rossi
IL MAIALE -
Du porcu non si jetta nenti. Ma occorre che sia un maiale di gran qualità. Come quello dei
Polimeni e degli
Ioppolo, «noi sorvegliamo ogni fase della sua crescita: nascita, allevamento, macellazione», ci dicono questi ultimi. Ed è fondamentale l’alimentazione, con un disciplinare che gli
Ioppolo (contrada Ferraro 80 - San Giorgio Morgeto. Tel. +39 0966 935101) si sono imposti da soli, a base di mais, farina e orzo.
Enzo e
Renato, fratelli, lavorano con maestria circa 100 maiali ogni anno, è una tradizione di famiglia iniziata con nonno
Vincenzo, norcino sull’Aspromonte, e poi mamma
Stella e papà
Francesco, col
negozio aperto quattro decenni or sono o giù di lì. I loro suini sono un incrocio di razza danese – la scrofa – e
Duroc – il verro - ma si propongono di lanciare presto un progetto per la valorizzazione dell’autoctono suino nero calabrese, bestia di difficile allevamento, oggi riscoperta soprattutto nel Cosentino, non ancora quaggiù in Aspromonte: «Garantiscono poca resa, arrivano al massimo a 200-210 chili di peso, contro i 270-300 del più comune maiale rosa. Non solo: vanno tenuti in stato semibrado, così il prodotto finale viene a costare esattamente il doppio». Hanno molto grasso ma “salutare”, ricco di Omega-3, «al gusto si sente la qualità, specie per guanciale e pancetta tesa». Però, ribadiscono, quello che fa la differenza, alla fine, è ciò che mangiano gli uni o gli altri. E su questo gli
Ioppolo sono attentissimi.
I CURCUCI – Nella foto sopra, una teglia di circa 3-4 chili di cosiddetti
curcuci. Quando le parti di carne e cartilagine messe a bollire nel brodo vengono consumate, si toglie lo strutto liquefatto in eccesso. In fondo alla
caddara, che poi andrà lavata con sola acqua calda per liberarla dal grasso, rimangono i resti delle frittole: piccoli pezzi di carne, cotenna e sugna, che vanno posti in un tegame e solidificano. Diventano l’alimento
del giorno dopo, e non solo, perché sotto lo strato di sugna si conservano a lungo. «Per me, il modo migliore di consumarli è tagliarne una fetta e porla sul cane caldo abbrustolito, poi un po’ di pepe» (
Arturo Polimeni), qualcuno aggiunge anche qualche goccia di limone. Ma la tradizione vuole che i
curcuci condiscano anche le uova fritta, o siano utilizzati in altre preparazioni più complesse:
a pulenta chi brocculi e curcuci e
la pitta ca ricotta, l'ovu e curcuci, una sorta di pizza in crosta.

Diego Rossi, Giacomo Sacchetto, Mauricio Zillo, Francesco Ruggiero, Luciano Monosilio e Angelo Sabatelli
GLI CHEF - «
Senti la vérza! Questo è il profumo del Nord, ostia!» scherzava
Diego Rossi, veronese a Milano, tra gli chef ospiti a
Pig Calabria. Perché le preparazioni a base di maiale e verdure invernali sono il fil rouge alimentare di mezzo Occidente,
l’altro Rossi (per distinguerlo da
Nino, padrone di casa) preparava
Verza bruciata con orecchie di maiale, lenticchie fritte, peperone crusco e bergamotto, versione gourmet di un piatto povero, con chiari riferimenti locali calabresi «ma parente, ad esempio, dei
caponet piemontesi», e di mille altre ricette, «anche noi ne abbiamo una simile, in Romania», aggiungeva ad esempio un’ospite d’oltreconfine. Storie alimentari glocal.
Buonissima – anzi, di più - la verza di Rossi, comunque. Deliziosi poi i Tacos di castagna, maiale, mela verde e maionese di ostriche di Luca Abbruzzino. Golose le Girelle di topinambur e ‘nduja di Angelo Sabatelli. Di grande eleganza la Pancia di maiale fondente, spuma di patate, amaro del capo, finocchietto, capperi e meringa alle olive preparata da Giacomo Sacchetto, sous chef di Casa Perbellini a Verona. Ma godibilissimi tutti gli assaggi, firmati da altre stelle del firmamento culinario: c’era chi veniva da vicino (Antonio Biafora, Gennaro Di Pace, Maurizio Sciarrone), chi da lontano (Luciano Monosilio), chi da lontanissimo (Mauricio Zillo e Francesco Ruggiero del parigino A Mére).
Hanno compreso come un evento come questo non può/deve essere più la riproposizione di piatti gourmet ma in forma minore, improvvisata, affannata; bensì la nobilitazione di tradizione e storia, attraverso la rilettura del cibo di strada, delle ricette popolari, dei cibi poveri. Un’alta cucina diversa, non di risulta. Così – abbiamo riportato le parole di Gianni Rossi, all’inizio di questo pezzo – ci si accorge che lo chef non sta nella torre d’avorio, ma è partecipe della festa.
DULCIS IN FUNDO –
Pig ha certificato anche la vivacità di un “distretto del gusto” calabrese in fieri e che oggi si fonde certo sulla stella sempre più luminosa di giovani chef protagonisti della
nouvelle vague locale (quelli presenti, come
Abbruzzino,
Biafora, Di Pace, Nino Rossi e
Armando Sciarrone, figlio di
Maurizio. O quelli assenti, a iniziare da
Caterina Ceraudo). Ma che si fa forte anche di grandi artigiani come i macellai che vi abbiamo raccontato; di ottime cantine (erano presenti
‘A Vita,
Sergio Arcuri,
Cataldo Calabretta,
Cantine Viola); di birrifici di qualità (
Gli Sbronzi di Reggio Calabria). E persino di un superbo pasticcere.
L’Antica Pasticceria Artigianale Scutellà sta a Delianuova, una ventina di minuti scarsi da Villa Rossi. La prima licenza è del 1927, «iniziò il mio bisnonno come caffè e bottiglieria», poi la conversione dolce che vede ora grande interprete Rocco Scutellà, classe 1973, maestro Ampi, l’unico in regione. Spiega: «Questo territorio difficile ti regala però passione e anima. Certo, è complicato proporvi alta qualità, che ha dei costi. Esistono mondi diversi nell’approccio al cliente rispetto al livello di spesa: al Nord un chilo di pasticcini costa da 30 euro in su; io mi attesto sui 20 euro, qui sono tra i più cari, e devo fronteggiare una concorrenza che scende fino a 8-10 euro».
Però le creazioni di Scutellà sono straordinarie. Lui considera Gianluca Fusto il proprio mentore, ha studiato ai master di Iginio Massari, ma ha anche fatto la gavetta nelle migliori piccole botteghe artigianali siciliane. Si vede: come nel Cremoso di Jivara Valrhona con mousse di lamponi (l’Aspromonte è un paradiso dei frutti di bosco, per chi non lo sapesse); nella Tartelletta di frolla con crema di pistacchio, mousse di ricotta e glassa al caramello. O nei panettoni: quello alle albicocche, arance e olio d’oliva, o il Pan del Brigante, una versione con uva passa e Greco di Bianco, vino ottenuto dall’omonimo vitigno autoctono della fascia costiera ionica reggina. Scutellà ha prodotto 2.200 panettoni sotto Natale, e sono andati a ruba. Un’altra storia che varrà la pena raccontare per intero, prima o poi.
(Testo di Carlo Passera, la ricca fotogallery è di Gabriele Zanatta)