Fulvio Pierangelini

 Foto Brambilla-Serrani

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Vietata la lettura a ristoratori, giornalisti, forumisti e americani... Su Fulvio Pierangelini - per lungo tempo primo chef d’Italia secondo gran parte della critica gastronomica, nazionale e non solo - fioriscono aneddoti e leggende. Personalità quanto meno originale, formazione atipica, carattere burbero che nasconde un cuore zuccherino, etica inflessibile e intransigenze di varia natura: Paolo Marchi qualche tempo fa lo ribattezzò «l’orso scopritore» per il suo «artigianato dell’alta cucina»; Raffaella Prandi «il grande solista» della scena italiana in un prezioso libro-intervista. È il campione di una cucina umanistica, che mette al centro l’uomo, il cuoco, l’artista, piuttosto che il prodotto o la tecnologia. E penso a un afflato anche etico, perché in tempi in cui è normale che uno chef faccia l’imprenditore, il pr o addirittura il gastronomo, disertando i fornelli e delegando l’ideazione delle ricette, sono pochi coloro che ancora ci prendono gusto a spadellare. Probabilmente solo lui e Michel Bras, capaci di trasmettere ai piatti vibrazioni impensabili per le catene di montaggio dei ristoranti haut de gamme. Sono spessori radicati in una decisa vocazione, che prima di essere scelta professionale è stata scelta di vita.

Nato a Roma nel 1953, Pierangelini conta fra i pochissimi cuochi laureati (per la precisione in Scienze Politiche, con il massimo dei voti e una carriera abbozzata da ricercatore). Trasferitosi in Toscana, nel 1980 con la moglie Emanuela ha intitolato il suo celebre locale, il Gambero Rosso di San Vincenzo (ora gestito solo dalla moglie) a un episodio del Pinocchio di Collodi, con possibili richiami alle vicende della sinistra (vedi la scorpacciata di Pinocchio col Gatto e la Volpe nel capitolo XIII). Da allora si sono susseguiti i piatti miliari, tutti venati da una certa naïveté: il perfezionismo resta volentieri nascosto, come i cassetti chiusi delle messe in scena di Visconti, riempiti di oggetti coerenti per agire sulla psicologia degli attori; e anche la tecnica può essere lasciata un po’ da parte, a condizione che sia stata pienamente posseduta («da Picasso accetto la semplificazione delle forme, perché so che saprebbe disegnarmi la più realistica delle Madonne»).

Insomma il cuore ha sempre battuto lontano da tecnicismi e intellettualismi di una certa avanguardia, privilegiando il richiamo a elementi noti: «Preferisco fare arrivare il cibo in tavola attraverso una serie di operazioni facilmente identificabili, che si esprimono in tutta la loro trasparenza. Questo non significa fare una cucina senza ricerca, ma avere fatto della semplicità lo scopo primario della ricerca stessa», ha sempre chiosato lo chef. Ora che collabora con la Rocco Forte Collection, dividendosi in consulenze tra Roma (al Le Jardin De Russie) e la Sicilia, ci chiediamo se tornerà a gestire un'insegna tutta sua.
 

Ha partecipato a

Identità Milano


a cura di

Alessandra Meldolesi

Umbra di Perugia con residenza a Bologna, è giornalista e scrittrice di cucina. Tra i numeri volumi tradotti e curati, spicca "6, autoritratto della Cucina Italiana d’Avanguardia" per Cucina & Vini