…e poi arriva la Disgraziata. E vince tutto.
C’è una doppia chiave di lettura possibile, nel parlare del lavoro di Matteo La Spada, dominus delle pizzerie messinesi con i tre (+1, l'estivo) locali che lo vedono protagonista, il primigenio L’Orso, che per tutta l’estate va a trascorrere le proprie serate sul mare, in trasferta al Blanco Beach Club; il centrale L’Orso in Duomo e il fratellino minore L’Orso in teglia per una proposta più easy: un’attenzione all’equilibrio stilistico, ovverosia la netta percezione di una ricerca della complessità e una consapevole tensione alla raffinatezza, però tenute a bada – quasi a controbilanciare – dalla compresenza dell’impronta pop, ancoraggio costante (a volte utile nei marosi eventuali e, sempre, a far cassetta; altre volte, invece, limite oggettivo alla creatività) e quasi ossessivo nel mondo della pizza e di chi lo (de)canta.
La Spada è abile timoniere, sa fare benissimo, potrebbe persino fare di più, ci presenta la Disgraziata quasi con timidezza, come dire: “Beh, qui ci vado giù pesante, mentre voi siete palati fini...”. La Disgraziata però straripa tra fauci e papille, ammalia, conquista. (La Disgraziata non è una presenza sgradita al tavolo. È una pizza, ovviamente: due strati in padellino farciti con mortadella, melanzane sott'olio, funghi, salame, primosale, gocce di habamix, terra di olive, datterino rosso semi dry, lacrime di peperoncino. Boom).

La Disgraziata di La Spada nasce come omaggio a un tipico street food messinese e al suo inventore, personaggio mitico della storia locale, Don Minico, al secolo Domenico Mazza, classe 1921, venuto a mancare nel marzo di dieci anni fa. Da garzone di un forno di nel villaggio collinare di Gesso divenne bibitaro in un proprio chiosco al quadrivio delle Quattro Strade (Colli San Rizzo, località Quattro Strade). La moglie Grazia Celona approfittava della disponibilità dell'autista del pullman che da Gesso andava a Messina, per fare arrivare il pranzo a marito e figlio: una truscia (fazzoletto di stoffa annodato contenente il pranzo frugale di contadini e muratori) con pane, melanzane e pomodori sott'olio. La leggenda vuole che tali pagnotte farcite, che Don Minico condivideva volentieri con i clienti, venissero anche gustate sottobanco da ospiti non invitati. Don Minico se ne accorse e architettò uno scherzo: aggiunse a una pagnotta una quantità importante di peperoncino, cosicché lo scroccone di turno si ritrovò con il palato in fiamme ed urlò: «Minucu, stu pani è disgraziatu comu ‘a ttia!». L'idea comunque rimase, la Disgraziata - con un apporto più moderato di peperoncino - ebbe successo, e ancor oggi il chiosco di Don Minico è attivo, gestito dal figlio Paolo. Si chiama Don Minicu - Casa di cura, tanto è salubre l'aria della zona (e forse anche il cibo che vi si serve)


Matteo La Spada ha ripreso questa tradizione di street food messinese e l'ha portata in pizzeria. Racconta: «Fino a un paio di anni fa la mia pizza più rappresentativa era forse la Fata Morgana, impasto al padellino al nero di seppia, poi gambero rosso, stracciatella, datterino giallo, erba cipollina. Qualcuno mi mise però una pulce nell'orecchio: "Ma davvero questa pizza rappresenta il tuo dna di pizzaiolo?". Mi misi a far ricerca». Approdò sui colli messinesi, dove da decenni ha successo la Disgraziata di Don Minico, pane cunzato assai ricco, la pagnotta piena di mollica e stra-condita con salame di Sant’Angelo di Brolo, mortadella d’asino tagliata grossolanamente, prosciutto, tuma, melanzane sott’olio, carciofini. «Io ho adattato questa tradizione secondo i miei gusti: invece del pane di semola molto ricco di mollica, il mio disco ha pure della semola, ma l’ho reso scioglievole e croccante esternamente con la tripla cottura. Soprattutto, non volevo far grondare il boccone d'olio, come l’originale. Così abbiamo alleggerito, tolto la tuma a favore del primosale, non il salame di Sant’Angelo ma uno meno grasso, poi una mortadella delicata. Ho anche tolto i carciofini e messo i pomodorini semidry per contrastare il gusto e rinfrescare il piccante».
L’assaggio, appunto, vince. Il che diventa lo spunto per quattro osservazioni più generali. 1) Tre o quattro simil-
Disgraziate (ossia la ripetitività di un boccone così pieno) sarebbero troppe, farebbero perdere armonia all’esperienza complessiva e la appesantirebbero oltre misura, anche perché a noi questa leccornia è giunta come ultimo step di un degustazione lungo, composto da cinque proposte, all’
Orso in Duomo. Ma una sola
Disgraziata, è davvero una meraviglia, la felice e golosa pienezza del morso. 2) Noi si cerca l’eleganza, l’armonia, la complessità, ossia quelle caratteristiche proprie della cucina d’autore e che vogliamo ritrovare anche tra le migliori pizzerie, in quel percorso parallelo di crescita che stiamo accompagnando da tre lustri. Però poi un’esplosione di nuances forti, una bomba di autenticità quasi ignorante (ma che non è affatto tale, come vedremo) che t’avviluppa il palato, fa la sua gran bella figura e riconcilia col cibo. Come si possono criticare, per dire in paragone, i
Paccheri alla Vittorio? Impossibile, appunto. Anzi, diventano iconici, come a suo modo la
Disgraziata. 3) Avere tre insegne - tre
Orsi diversi - aiuta a segmentare e organizzare al meglio le anime stilistiche che convivono nella proposta di
La Spada e nel suo dna di pizzaiolo moderno; 4) Pure nella
Disgraziata, favoloso sandwich di gusto,
La Spada apporta quell’attenzione tecnica che, a voler analizzare la cosa per bene, è in realtà la chiave di volta della piacevolezza del boccone: è realizzata con l’impasto Duomo (disponibile solo a
L’Orso in Duomo,
ça va sans dire), ossia intanto un mix di quattro farine che contiene segale e grano parzialmente germogliato, il risultato è profumato e avvolgente; ma che soprattutto va in tripla cottura, eleviamo inni a chi ha introdotto per primo questo metodo, oggi con varie declinazioni, perché offre una consistenza unica e una golosità senza pari, un crunch suadente e poi una sinfonia di morbidezza condita dal sapore.

Uno dei segreti della Disgraziata è la tripla cottura dell'impasto Duomo con il quale è realizzata. La Spada: «Partiamo dall’impasto, utilizziamo farina di tipo 1, farina di margherito, segale, e farina di tipo 0 — quest’ultima presente nel nostro lievito madre. Realizziamo un prefermento a temperatura controllata, che lasciamo lievitare/maturare per circa 18 ore. Successivamente, rinfreschiamo con le farine sopra elencate e integriamo con lievito madre. Una volta formato l’impasto e porzionato in bocce, lo lasciamo riposare per un tempo variabile tra le 3 e le 5 ore. Quando è pronto, lo stendiamo nei padellini e lo cuociamo in forno a 100 °C per circa 15–18 minuti, fino a stabilizzare il disco di pasta. Subito dopo, lo trasferiamo in forno statico a 250 °C per 3 minuti. A questo punto, la base viene lasciata riposare per almeno 24 ore a temperatura controllata, affinché risulti perfettamente asciutta e priva di umidità. Solo dopo questo processo avviene la terza cottura, in forno statico, con l’aggiunta dei topping previsti dal nostro menu»
Quest’ultima considerazione ci riporta a un dato di fondo che è poi esito finale di tutta la spataffiata: pur – lo abbiamo detto – volendo scientemente mantenere la propria anima pop,
La Spada è intanto un maestro di impasti e lievitazioni, poi anche un raffinato costruttore di sottigliezze aromatiche che sanno essere assai fini, pur sempre con la zampata godereccia. E qui pensiamo a un nostro morso di qualche mese fa, era aprile e sempre a
L’Orso in Duomo la pizza
Giardino di primavera c’è rimasta impressa per l’equilibrio veg delicato – un tris di verdure (borragine e cicoriella selvatica cotte al vapore, poi al sale e infine sottovuoto, quindi la cipolla stufata), una grattugiata di bottarga d’uovo, il fiordilatte e infine la zampata di cui sopra, del bel lardo di Patanegra. Non è un caso che il topping sia stato studiato insieme a un amico chef di
La Spada e che stimiamo,
Giuseppe Biuso. Si vede, si sente.
E insomma:
La Spada sa far tutto e bene (la scrocchiarella, la teglia, la pala romana, la napoletana contemporanea, la tripla cottura, il padellino); è eclettico, sa giostrare tra necessità d’essere riconoscibile e l’impulso innovativo suo proprio. Le insegne gli vanno dietro. Servirebbe magari qualche attenzione in più al dettaglio nell’indirizzo di punta,
L’Orso in Duomo, che propone anche l’abbinamento cocktail, di buon livello, e una piccola cucina, ma dove manca però - ad esempio - una maggiore cura alle finiture d’arredamento per evitare l’effetto finto-chic e divenire davvero quella pizzeria 2.0 che aspira a essere, ossia uno di quegli indirizzi metropolitani e glamour (che brutta parola!), locali contemporanei che rappresentano la nuova frontiera della pizzeria d’autore, in un settore peraltro in perenne evoluzione ed ebollizione. Ma speriamo ci si arrivi, poco a poco, perché
Matteo se lo merita di sicuro: intanto va bene così,
adelante con juicio.
(Un ultimo consiglio, questa volta per il fine cena: meglio dolci di tradizione, ma preparati comme il faut, che inseguire l’effetto sorpresa a tutti i costi).
L'ORSO IN TEGLIA

Matteo La Spada a L'Orso in teglia

Varietà di tranci a L'Orso in teglia, compresa la classica messinese

Un trancio norcino a L'Orso in teglia
L'ORSO

Messinese: impasto pizza in teglia, scarola, tuma, pomodoro, alici, pepe nero in grani

Malena: impasto napoletano contemporaneo, salsa di pomodoro pelato siccagno, mozzarella di bufala, parmigiano, basilico, olio evo Terraliva

Uno sguardo alle Eolie, con topping studiato insieme allo chef Nino Ferreri: impasto di farine tipo 1 e segale, salsa di pomodoro pelato siccagno, ventresca di tonno, capperi di Salina, sedano croccante, terra di olive, cipolla caramellata, bottoni di vellutata di acciughe, zeste di limone
L'ORSO IN DUOMO

Seppia in cassetta: tartare di seppia, salsa verde su pane in cassetta integrale

Marinara eclettica: salsa di pomodoro pelato siccagno, sarda affumicata, datterino rosso semisecco, cipolla caramellata, gel di arancia, prezzemolo, crema d'aglio, origano

Angus tonnato: fiordilatte, angus, salsa tonnata, sedano croccante, foglie di cappero, polvere di lampone, lacrime di peperoncino