10-07-2023

Elogio della scarpetta: Chicco Cerea e l'alta cucina che cambia (ah, controllate i bidoni dell'immondizia!)

DIBATTITO SULLA CUCINA D'AUTORE - Non è più tempo di formalismi, la tavola (qualsiasi tavola) funziona solo se regala emozioni ed empatia. Poi, bisogna essere oculati nella gestione: ad esempio controllando che non vi siano troppi scarti...

I PACCHERI ALLA VITTORIO E LA SCARPETTA - «Ci son

I PACCHERI ALLA VITTORIO E LA SCARPETTA - «Ci sono ancora clienti che, alla fine, sono quasi intimoriti, alcuni chiedono timidamente: "Ma possiamo fare la scarpetta? Davvero? È permesso?". Certo che è permesso!», dice Chicco Cerea

Continuiamo il nostro dibattito sul futuro del fine dining, o per meglio dire della cucina d'autore: dopo questo articolo introduttivo (Quale futuro per la cucina d'autore? Noi d'Identità lanciamo il dibattito, fissando qualche paletto) e l'intervento di Luis Andoni Aduriz (leggi qui), è la volta di Chicco Cerea.

«Mi ricordo una cosa su tutte, di quando lavoravo al Da Vittorio», ci raccontò uno chef tempo fa. Ovvero, che cosa? «Chicco Cerea che veniva a controllare come ci muovessimo in cucina. E attenzione: non guardava le preparazioni, le cotture, non assaggiava le salse, non testava il punto di sale. No. O meglio: certamente faceva anche quello, ma dopo. Per prima cosa, apriva invece i bidoncini dell'immondizia per capire cosa avessimo scartato, se avessimo sprecato della materia prima».

Numero di telefono. Driiiiiin (non fa più driiiin, ma è per dire. Risponde Chicco Cerea, è a Brusaporto, fine servizio).

Ciao Chicco, ma è vero quello che ci hanno raccontato? Che fai il controllo dei bidoni dell'immondizia...
«Verissimo. Sempre, quotidianamente. E nonostante ormai la brigata lo sappia, ancora trovo sorprese: l'altro giorno una mela intera, buonissima ma leggermente bacata, quando bastava eliminarne un pezzettino e il resto era perfetto, l'ho lavata bene e me la sono mangiata io. Credo di essere una persona calma, ma quando vedo buttar via il cibo divento una belva, mi trasformo». Il ragionamento di Chicco si lega alle tematiche della sostenibilità ambientale, il famoso no waste, ma lo consideriamo ora da un altro punto di vista, quello sulla sostenibilità economica della cucina d'autore, dibattito che abbiamo avviato qui. «Un prodotto va utilizzato al meglio. Un branzino pescato costa tra i 45 e i 60 euro, dipende dalla stagione: allora perché utilizzarne solo una parte, magari non più di un terzo, come fanno molti colleghi? Noooo, noooo: io col resto m'invento, per dire, un'eccellente farcia per dei raviolini. O la sella d'agnello: devi rifilarla perché nel piatto da portare al tavolo forma e porzione devono essere corrette e anche l'estetica è importante. Però le rifilature che elimino sono saporitissime, guai se finiscono buttate! Le metto da parte, mal che vada a fine serata arrivano sempre colleghi affamati, un po' di pane e ci rifocilliamo insieme. E mi vien naturale spegnere le luci quando non serve tenerle accese. O chiudere il rubinetto dell'acqua. Un grande ristorante, proprio come un ristorante normale, si fonda sempre su una gestione oculata».

Chicco Cerea

Chicco Cerea

Cerea smonta un falso mito, la comune convinzione in base alla quale un locale di fine dining, ad esempio un tristellato come il suo Da Vittorio, debba necessariamente viaggiare in rosso, sia condannato per la sua stessa formula a perdere soldi, tanto ci saranno poi tutte le altre attività di contorno a far quadrare i bilanci. «Manco per sogno. Siamo qui quasi 24 ore al giorno, ci impegniamo da matti, finire il mese coi conti a posto non è semplice, il costo del personale in Italia è pazzesco. Ma bisogna saper gestire l'impresa ristorativa perché non è affatto impossibile renderla fruttifera. È vero: noi abbiamo ormai creato un gruppo, spinti dalla voglia di fare (Quanti sono i ristoranti? «Oddio, devo contarli: oltre a questo, ci sono i due di Milano, Portofino, Parigi, St. Moritz, l'Asia coi due di Shanghai e quello di Saigon...», insomma sono otto, più tre pasticcerie, il laboratorio, il catering... Con quasi un migliaio di collaboratori diretti e indiretti, dei quali 210 solo a Brusaporto, si raggiungono i 500 con la galassia Vicook eccetera, ndr). Ma guai se non guadagnassimo già col Da Vittorio! Non avrebbe senso. E penso alla famiglia Santini, agli amici del Dal Pescatore: si gestiscono l'attività, hanno i loro giorni di riposo e vivono benissimo con il solo indirizzo tristellato, senza averne altri». Serve una managerialità «che un tempo non c'era perché la cucina italiana nasce come "quella della nonna o della mamma", spesso all'estero siamo ancora visti così, mentre si riconosce ai colleghi transalpini maggiore professionalità. Però le cose stanno cambiando, anzi sono già cambiate, negli ultimi anni abbiamo guadagnato tanto tanto tanto tanto terreno».

Il principio base è: «Può essere fine dining, casual dining, trattoria, street food, quello che vuoi. Ogni formula può avere successo, l'importante, sempre, è che la gente quando mangia possa godere. Il cibo deve colpire l'attenzione, deve dare stimoli, deve regalare un'emozione. Vince chi ci riesce, qualsiasi tipo di ristorazione voglia o sappia fare; se un cliente esce da un locale e non ha voglia di tornarci, hai fallito». Aneddoto: «Lo scorso anno ero in una via a Saigon e ho visto un chioschetto con una signora anziana che preparava degli uccellini fritti nel burro chiarificato. Li ho assaggiati e m'è venuta la pelle d'oca: erano croccanti come biscotti, straordinari. Non vedo l'ora di essere di nuovo là e cercare quella vecchina. Allo stesso modo, ricordo la felicità in certe cene nelle celebri maison transalpine, pura haute cuisine, magari trent'anni fa. Da Roger Vergé ad esempio». Esperienze diversissime tra di loro, ma ugualmente indimenticabili.  

Un momento celebre - e giocoso - al Da Vittorio: i cannoncini che vengono riempiti live

Un momento celebre - e giocoso - al Da Vittorio: i cannoncini che vengono riempiti live

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Il tema, dice Chicco, non è dunque trattoria vs cucina d'autore. Di sicuro quest'ultima deve dare qualcosa di diverso, «mentre a volte all'osteria sgrausa ti diverti di più che in certi indirizzi superstellati, superpremiati». Houston abbiamo un problema, «vai, ti siedi, ti tengono lì ore ma è solo noia, ti rompi i c..., sei come sequestrato, non finisce mai». (Chicco si interrompe proprio qui, deve salutare un tavolo che sta andando via, clienti importanti. Torna al cellulare: «Rieccomi. Per dire: erano i XXX, quelli delle cliniche. Sono stati il primo tavolo ad arrivare, alle 12,05. Praticamente non se ne volevano più andare, si sono alzati adesso, ore 16,28. Perché? Perché stavano bene, chiacchieravano, mangiavano, se la godevano. "Appena possibile torneremo", m'han detto»). Riprende allora il discorso: «Dicevo che a volte nell'indirizzo superstellato non si finisce mai, non ne puoi più. Oppure ti propongono piatti esteticamente perfetti ma scialbi, senza anima». Sintesi: «Tutta la cucina, e dunque anche l'alta cucina, deve essere innanzitutto cuore».

E deve evolversi, «perché a volte si è ancora legati a certi cliché non di dieci, ma di quaranta o cinquanta anni fa! Penso al cameriere impettito dietro alle spalle, ai mille formalismi, al servizio che t'interrompe ogni cinque minuti per versarti una goccia di vino. Son cose che non hanno più alcun senso, anzi sono deleterie. Certo, il vino non deve mai mancare nel bicchiere, dev'essere rabboccato nei tempi giusti. Ci vuole attenzione. Ci vuole personalità. Ma ci vuole soprattutto empatia. Ti faccio un esempio: i Paccheri alla Vittorio sono dei nostri long seller. Ci sono ancora clienti che, alla fine, sono quasi intimoriti, alcuni chiedono timidamente: "Ma possiamo fare la scarpetta? Davvero? È permesso?". Certo che è permesso!». Anzi, è quasi obbligatorio: non tanto e non solo fare la scarpetta, ma godersi il sugo meraviglioso e, più in generale, l'esperienza gastronomica. «Io, quando propongo l'alice fritta con la salsa tonnata (la raccontammo qui, ndr), invito a raccogliere quest'ultima col dito. Poi, certo, ci deve essere un cameriere che ti porta sollecitamente una salviettina per pulirtelo. Ma è un gesto simpatico, giocoso, che ti fa rilassare: è un'esperienza di alta cucina ma ti ho messo a tuo agio come se fossi in allegria tra amici».

I Paccheri alla Vittorio

I Paccheri alla Vittorio

La teatralità dell'esperienza del fine dining, conclude Chicco, una volta era rappresentata anche in mille ritualità solenni immerse in un ambiente distaccato; oggi invece è legata all'interazione piena con il cliente, al suo coinvolgimento (come nella colazione Buongiorno Da Vittorio, leggi qui, ndr), «il cameriere che ti accoglie al tavolo, "buonasera, sono Antonello e avrò il piacere di occuparmi di voi, stasera". Mentre un tempo al Maxim's potevi conoscere il nome del tuo cameriere non prima della quinta o sesta volta che c'andavi».

Un dubbio finale: c'è forse un eccesso d'offerta nell'alta ristorazione? Ossia: abbiamo tantissimi ottimi chef, ognuno vuole vedere le stelle, così si sono moltiplicati gli indirizzi di fine dining mentre il loro potenziale pubblico è cresciuto, ma forse non così tanto... «Non credo. C'è semmai una - positiva - varietà di offerta. Semmai il problema è che in molti ancora sono troppo legati alle mode, che è un errore che ho commesso anche io da giovane. C'è stato il momento della Francia, poi della Spagna, più recentemente dei nordici, e allora tutti a mangiare erba, muschi e licheni. Va benissimo: ma non corriamo dietro a queste tendenze, cerchiamo semmai la nostra identità. Quando l'hai sedimentata, tu sarai riconoscibile per quel tipo di cucina, e quindi potrai avere successo. Sempre se - è la premessa generale - saprai emozionare, ovvero far felice il commensale».

Al momento dei saluti, Chicco la butta lì: «Stiamo lavorando anche a qualcosa di nuovo. A qualcosa di ancor più duraturo, che potrà rimanere nel tempo. Ma ne riparleremo quando sarà l'ora, per adesso non mi sbilancio». Eccola, la crisi del fine dining. Vista da Chicco Cerea.


Dall'Italia

Recensioni, segnalazioni e tendenze dal Buonpaese, firmate da tutti gli autori legati a Identità Golose

Carlo Passera

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Carlo Passera

classe 1974, milanese orgoglioso di esserlo, giornalista professionista dal 1999, ossia un millennio fa, si è a lungo occupato di politica e nel tempo libero di cibo. Ora fa l'opposto ed è assai contento così. Appena può, si butta su viaggi e buona tavola. Coordinatore della redazione di identitagolose.it e curatore della Guida di Identità Golose alle Pizzerie e Cocktail Bar d'autore. Instagram: carlopassera

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