24-06-2023
“Spiacente di deludervi, ma la notizia della mia morte è grossolanamente esagerata”: è il telegramma che, con brillante ironia, Mark Twain inviò all'Associated Press, dopo aver appreso che quella che era (ed è) una delle più grandi agenzie di stampa del mondo aveva pubblicato il suo necrologio, piuttosto anzitempo. Era il 1897. Certo è che lo scrittore statunitense, ormai sessantunenne, si trovava nella fase discendente della carriera; resta il fatto che sopravvisse altri 13 anni al frettoloso annuncio della sua dipartita. Ci pare che stia avvenendo qualcosa del genere con il cosiddetto fine dining: ha le sue magagne, come peraltro ogni altro settore; vive molte incertezze, e chi può dirsi certo del futuro, con questi chiari di luna? Ma fino a prova contraria è vivo e vegeto. Ha lunghi anni ancora davanti a sé? Questo lo vedremo: di sicuro è eccessivo considerarlo già stecchito.
Invece, da un po' di tempo, nella vulgata giornalistica corrente è tutto un affannarsi a celebrarne le esequie. "L'Italia perde un Tre stelle: chiude il St. Hubertus di Norbert Niederkofler - Grandi ristoranti in difficoltà, continua la serie delle chiusure eccellenti, inaugurata da quella del Noma di Renè Redzepi", titolava qualche mese fa un importante quotidiano dando così l'estrema unzione a un luogo che semplicemente se ne stava per andare in pit stop causa importanti lavori di ristrutturazione, e pre-pensionando uno chef che, invece, di rimanere con le mani in mano sembra non abbia nessuna voglia, abbiamo scritto recentemente della sua nuova avventura a Brunico, leggi qui. "Eh, ma il Noma...”, obietterebbe qualcuno; che è come dire "Eh, ma elBulli...”: tratta(va)si in entrambi i casi di luoghi sempre pieni a tappo (provate a trovare un tavolo al Noma da qui al 2025, a botte di 3.950 corone danesi a coperto, pari a 530 euro bevande escluse - e viaggio, e pernottamento), ma a enorme quoziente di ricerca e sperimentazione gastronomica, dunque con costi di gestione altissimi... I cui creatori han deciso a un certo punto di cambiare formula, forse persino di cambiare vita.
Insomma: il tema della sostenibilità economica del fine dining esiste, è reale. Sappiamo tutti come le marginalità in questo segmento della ristorazione siano da sempre risicate, che in Italia c'è un difetto di managerialità nell'intero settore, ne parlammo anni fa (leggi qui) con Severino Salvemini, docente della Bocconi e Ambasciatore del Gusto, che spronò: occorre applicare principi d'impresa, con analisi dei costi; servono maggiore attenzione alle economie di scala e flessibilità della proposta.
Parafrasando Cavour: abbiamo fatto l'alta cucina, dobbiamo fare l'alta ristorazione.
Una famosa foto scattata oltre un decennio fa da Oliviero Toscani ai grandi chef italiani dell'epoca (e ancora dell'oggi)
Proprio per tutte queste ragioni noi di Identità Golose vogliamo lanciare un dibattito sul tema, che svilupperemo sulle nostre colonne (pardon, sui nostri pixel) interrogando coloro che pensiamo possano offrire la loro pennellata per dipingere insieme un quadro completo e veritiero. Sono graditi ovviamente i contributi di chi voglia intervenire, se ha qualcosa di interessante da dire.
Partiamo però da alcuni presupposti. Secondo il Cambridge Dictionary, la cucina di fine dining è “a style of eating that usually takes place in expensive restaurants, where especially good food is served to people, often in a formal way”, dunque in sintesi “ristorante costoso, cibo eccezionale, servizio formale”. È una definizione storicamente corretta ma che ci appare sempre più statica, in questo ultimo decennio abbiamo assistito a un’esaltante evoluzione non solo in senso orizzontale (si sono affacciati molti modi diversi di proporre alta ristorazione) ma anche in senso verticale (quest’ultima ha tracimato innervando delle proprie logiche altri segmenti, si pensi alla bistronomia d’autore, alla trattoria contemporanea, a molta ristorazione borghese…). Proprio il successo planetario – dalla Colombia alla Thailandia, dalle Fær Øer al Sudafrica – ha allargato i confini, moltiplicato i format, espanso le potenzialità.
Così, ragionare oggi avendo come unico riferimento l’alta ristorazione d’antan, col cameriere in livrea e i piatti che trasudano caviale, è limitativo: noi parliamo e parleremo semmai di ristorazione d'autore, evoluzione/allargamento contemporanei della succitata, ossia di "chi, indipendentemente dallo sposare più la tradizione, l’innovazione o l’avanguardia, non segue stancamente stereotipi che non emozionano", come scriveva Paolo Marchi nell’introduzione della prima Guida dei ristoranti di Identità Golose, anno 2008. Quindi no radici esauste né creatività posticce: "Un cuoco non deve mai scordarsi che il suo lavoro deve essere finalizzato alla bontà del piatto e che se vuole strappare un autentico applauso in più deve aggiungervi del suo, un’idea, un abbinamento, un ingrediente sconosciuti prima".
Seconda considerazione: solo a Milano, la prima edizione della nostra Guida (non a caso: “Guida alla cucina d’autore”) elencava 20 indirizzi, ora sono 114. Nostra bulimia? Vediamo gli altri. Nel 2000 la Michelin in Italia sgranava 217 insegne stellate (delle quali 3 tristellate), dieci anni fa erano 307 (7 tristellate), ora siamo a 385, con 12 al massimo livello, nonostante pandemia, rincari, crisi del personale.
A occhio, non sembrerebbe una realtà alla canna del gas. In altre parole: o in Italia abbiamo 385 imprenditori della ristorazione che sarebbero da rinchiudere in manicomio, perché scommettono - anzi, continuano a scommettere sempre di più - su un settore che parrebbe essere in coma profondo. Oppure occorre analizzare le cose un poco più a fondo. È quello che ci proponiamo di fare.
Recensioni, segnalazioni e tendenze dal Buonpaese, firmate da tutti gli autori legati a Identità Golose
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classe 1974, milanese orgoglioso di esserlo, giornalista professionista dal 1999, ossia un millennio fa, si è a lungo occupato di politica e nel tempo libero di cibo. Ora fa l'opposto ed è assai contento così. Appena può, si butta su viaggi e buona tavola. Coordinatore della redazione di identitagolose.it e curatore della Guida di Identità Golose alle Pizzerie e Cocktail Bar d'autore. Instagram: carlopassera
Alessandro Parisi, lo chef campano al timone della cucina del ristorante Filo al Filario Hotel di Lezzeno, sul Lago di Como. Foto a cura di Letizia Cigliutti
Andrea Berton, classe 1970, di San Vito al Tagliamento, è stato uno dei Marchesi Boys. Festeggia quest'anno il decennale del suo ristorante Berton a Milano