03-09-2024

Fuga dal fine dining o deriva da TikTok? Perché in cucina, no, uno non vale uno

La zuppa del tristellato varrebbe tanto quanto (o persino meno) di quella della nonna, della zia che sa cucinare. Lo garantiscono i social. Ma l’autorevolezza si misura sul numero di followers? In realtà, la raffinatezza è cosa rara...

“La raffinatezza corre davanti alla volgarità e teme di essere sorpassata” sosteneva con il piglio del dandy il saggista William Hazlitt. La corsa immaginata dallo scrittore londinese in quegli anni (si era nell’Ottocento, epoca in cui imperversava il dandismo, quel comportamento non solo intellettuale col quale si vuole dare risalto al buon gusto e alle belle maniere) si è forse risolta in quel temuto sorpasso. La volgarità ha tagliato per prima il traguardo.

“Fine dining”, continuiamo a dire, evocando lessicalmente questa atmosfera di great pleasure, cucina raffinata quindi, da contrapporre a una più ordinaria. Il confine con il lusso, nella sua accezione nobile, si definisce da sé, o forse no.

Di crisi si parla, diciamolo chiaramente; di una caduta degli dei, dove le divinità rappresentate sino a poco tempo fa dall’alta cucina sono colpite al cuore o tallone (secondo taluni che da tempo ne declamano la fragilità). Da contraltare, come su un piatto della bilancia che precipita giù, s’alzerebbe il suo opposto: la “bassa” cucina, la cui definizione è talmente ardua da rimanere sempre sospesa.

Partecipa a questo gioco al massacro uno storytelling, sostenuto nel nostro Paese anche da certa stampa che da qualche tempo ha intrapreso a demolire, scardinare, svilire il fine dining. La narrativa è ripetitiva: si va dagli chef che abbandonano le cucine in cerca di nuove forme di vita, a cuochi che si ritirano tra i monti dove prima raccoglievano pino mugo e ora non fanno manco il sugo; da giovani che abbandonano i fornelli, a ristoratori che abbassano la serranda, tutti all’urlo di “basta brodo, la vita è adesso”.

Non sfugge ai caterpillar dell’analisi antropologica l’esame del cliente; ormai sfuggirebbe egli da piatti adornati, da tavole ben presentate, da sughi, salse, mousse troppo areate, da discorsi noiosi. Andrebbe piuttosto, peripatetico, in cerca di un piatto sicuro.

Emerge quindi la nonna: la tirano su per i capelli, le rubano le ricette, la rimettono in sesto cucendole addosso, lentamente come all’uncinetto, una "nuova avanguardia". Lo slogan è di suo un ossimoro: il futuro sta nell’antichità.

In questo barnout antropologico, guardando appunto alla società, è però possibile vedere nel sorpasso evocato dal saggio William un altro, ahimè, più aderente significato: e se la crisi del fine dining fosse scritta nella crisi di una certa “liquida” società che corre, anzi accelera, verso forme diverse - e persino pecorecce - di concepire anche la cucina e i suoi derivati?

Lo vediamo ogni giorno: specie sui social ogni cosa, ogni piatto in questo caso, pare poter essere realizzata da chiunque, comunque e per chiunque, all’urlo insano “uno vale uno”.

Uno vale uno: la zuppa del tristellato varrebbe tanto quanto (o pure meno) di quella della nonna, della zia che sa cucinare, del piatto che piace agli amici o alla fidanzata. Lo garantisce la notorietà data più dal numero di followers che dal curriculum, dagli studi, dall’esperienza, dallo studio.

Circondata da queste sì basse forme di cucina, fatta di preparazioni improbabili, di creme artificiose che inondano gli schermi di TikTok, di influencer in parannanza che esaltano la panza più che la sostanza, l’alta cucina resta lì, immobile, a difendere e definere se stessa con l’orgoglio di chi non deve spiegarsi o piegarsi, ma con l’amarezza d’essere inghiottita e trafogata da una alternativa surrogata.

Rubiamo, per concludere, le parole di un altro scrittore, francese stavolta, che ben definisce questo contorno: “La raffinatezza è un misto di discrezione, di civiltà, d’amabilità e di prudenza. Ma poiché per conseguire la raffinatezza sono necessarie tante cose, non c’è da meravigliarsi che essa sia tanto rara”. Lo sosteneva Danien Mitton. Diamogli torto.


Dall'Italia

Recensioni, segnalazioni e tendenze dal Buonpaese, firmate da tutti gli autori legati a Identità Golose

Pasquale Caliri

a cura di

Pasquale Caliri

Classe 1965, siciliano di Messina, già giornalista professionista, ha lasciato la "cucina" nei giornali (scriveva di mafia e cronaca giudiziaria) passando alla cucina vera e propria, sempre con il pallino della comunicazione. Ha frequentato l'Alma e poi si è formato con Pietro Leemann e Paco Torreblanca. Dopo un'esperienza negli Usa, è stato chef del Marina del Nettuno Yachting Club Messina

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