Dopo Claudio Liu, Cesare Battisti. Qualche giorno fa, su queste pagine, abbiamo pubblicato un'intervista di Gabriele Zanatta con il ristoratore e imprenditore cinese, che ha raccolto un meritato successo a Milano con le sue insegne: Iyo, Iyo Omakase, Iyo Kaiseki e Aji Delivery. Abbiamo infatti colto l'occasione fornita dalla cena del settimo compleanno dell’Hub di via Romagnosi 3, dedicata proprio a Milano, per parlare con i protagonisti di quella sera della città in cui sono nate anche le nostre Identità Golose.
E Cesare Battisti con il Ratanà, il ristorante che ha aperto in zona Porta Nuova più di 15 anni fa, rappresenta un punto di riferimento importante per la cucina milanese contemporanea. Non è solo il cuoco che ha saputo reinterpretare la tradizione lombarda e proporre format contemporanei e intelligenti - insieme ai suoi soci ha aperto, sempre con notevole successo, anche il Pastificio Ratanà, Remulass e Silvano Vini e Cibi - ma è soprattutto un profondo conoscitore della città in cui è nato e cresciuto, e della sua evoluzione gastronomica.
La nostra conversazione non poteva che partire da lontano, dalle sue origini in via Padova, per arrivare a toccare il presente e il futuro di una Milano che forse sta ancora cercando di riscrivere la propria identità gastronomica.
Partiamo dall'inizio. Come è nato il tuo percorso nella ristorazione?
Da piccolo ero affascinato dal panettiere che stava nella corte di fianco a noi, in via Padova. Eravamo un gruppo di ragazzini di Crescenzago e ogni tanto gli davamo una mano a spostare quei mastelloni enormi dove c'era dentro la farina, la pasta madre. Vedevo questa magia sotto gli occhi, questa trasformazione della farina in pane croccante e profumatissimo. Ho sempre voluto fare il panettiere, ma i corsi erano già pieni, così ho fatto una cosa più generica. Erano gli anni '80 e le scuole di cucina a Milano erano in crisi. Di quattro, due erano state chiuse, anche perché la ristorazione era vista come un lavoro di servilismo - sia la sala che la cucina. Ma io ho iniziato subito, nei ritagli della scuola lavoravo nei catering, che all'epoca erano solo due o tre in tutta Milano. Poi a 18 anni, scartato al militare per esuberanza di leva, sono partito e sono andato all'estero. Ho fatto un imbarco su una nave da crociera, mi sono fermato in Australia per un anno e mezzo, poi sono tornato e sono ripartito per l'Alaska, dove ho lavorato quasi un anno. Mi piaceva tantissimo la natura, andavo a pescare i salmoni con la canna a mosca d'estate, quando non faceva mai buio. Sono bellissimi ricordi.
Devo dire che essere sempre a lavorare mi ha anche salvato. Sono vissuto in via Padova fino a 18 anni, all'epoca girava tantissima droga. Un sacco di miei amici sono finiti male purtroppo, ma io non c'ero, ero sempre a lavorare. Il venerdì sera, il sabato sera: andavo a scuola, poi lavoravo al pomeriggio e alla sera facevo il servizio al ristorante. Queste mie assenze mi hanno salvato da quelle compagnie.
Quanto hanno influito le esperienze all'estero sulla tua formazione e sul tuo modo di vedere la cucina milanese?
C'è un ricordo che mi porto dietro dall'Alaska che può sembrare stupido, ma per me è fondamentale. A Skegway c'era un baracchino per strada, non riuscivo a stargli lontano. Aveva questi pentoloni dove c'era cipolla tritata, burro fuso, e acqua di mare che bolliva con dentro delle zampe di granchio reale, di King Crab. Le tiravano fuori, le spaccavano col martello, le pucciavano nel burro e te le davano. Una cosa di un'essenzialità e di un gusto totalmente puro, una raffinatezza che ti parlava: "Non ho nient'altro da dirti, vado a pescare questi granchi, li puccio nel burro e te li do". Non è una roba banale, stiamo parlando di qualità altissima. Quella purezza mi ha segnato.
Sicuramente quelle esperienze hanno contribuito a forgiare la mia identità. Quando sono andato all'estero avevo già in mano una buona cucina, facevo catering di alto livello, ma vedevo che le cucine fuori erano abbastanza banali. Non mi davo pace: perché la cucina del nostro paese e della nostra città, Milano, non era riconosciuta all'estero? Quando sono tornato ho iniziato a conoscerla meglio. Ho cominciato a lavorare con i vecchi cuochi milanesi, ma mi era già chiaro che fosse appannata, pesante, a tratti scontata. Nella mia testa c'era l'idea che dovesse essere svecchiata. Bisognava solo prendere il coraggio.
Nel 2009 apri il Ratanà: quanto avevi chiaro, fin dall'inizio, quello che volevi fare in quel ristorante?
Molto chiaro. Il Ratanà nasce con un'idea precisa: fare una cucina nuova partendo dalla nostra identità. Una delle cose più forti che ci ha caratterizzato, in maniera anche testarda all'inizio, è stata la proposta del pesce d'acqua dolce. Mi ricordo i viaggi sui laghi a cercare fornitori, a vedere le persone che pescavano, a pregarle di venire a Milano a consegnarmi il pesce. Non c'era più l'usanza di mangiare il pesce d'acqua dolce. Quando ero bambino, negli anni '70, andavo al mercato con mia madre e c'erano cassette di anguille, pesci gatto: non branzini, non la vastità di scelte di oggi.
Dare da mangiare alle persone anguille e pesci gatto nella Milano del 2009, quando erano abituate ad astici e branzini, non era proprio scontato. Però adesso un rapporto dell'Unione Europea dice che nei prossimi dieci anni il consumo di pesce d'acqua dolce aumenterà del 400%, perché abbiamo massacrato i nostri mari. Non c'è più buono o meno buono, se è fatto bene: in questi anni l'abbiamo dimostrato.
Poi c'è stata anche un'evoluzione sulle verdure. Abbiamo fatto un lavoro incredibile negli ultimi dieci anni, diciamo da Expo in poi. In un posto di cucina milanese non sono proprio scontate, a Milano non c'è mai stata la cultura delle verdure. Però abbiamo fatto diventare protagoniste, con cotture e consistenze, delle verdure che prima erano relegate a contorni nella tradizione, magari anche stracotte. Un buon aiuto ce l'hanno dato anche i ristoranti di altre cucine del mondo, che hanno abituato le persone a mangiare le verdure croccanti, appena saltate nel wok. La cucina si evolve, è diventata un linguaggio talmente fluido che ogni anno ci sono tecniche nuove, cotture nuove, proposte nuove.
C'è un elemento che mi sembra fondamentale nel tuo approccio: il rapporto con i fornitori e i produttori.
Io vivo e respiro sentimenti e rapporti. È molto difficile che tenga rapporti con persone o con oggetti che sono sterili, che non mi danno niente. È sempre stato il modo di vedere la mia cucina. Non vorrei fare il romantico o il mieloso, però c'è della verità quando si dice che la cucina è un atto d'amore, che è sentimento. Se tu pensi che gli ospiti mangiano e ingoiano un cibo che tu hai manipolato, in quel momento c'è un rapporto molto intenso e concreto, bisogna sempre tenerlo presente.
E lo stesso rapporto ci deve essere con chi ti dà la materia prima, che sia pesce, verdura, carne. Preferisco che siano delle persone, dei piccoli fornitori. Oggi molti fornitori della prima ora ci ringraziano perché tramite noi riescono a servire anche altri ristoranti, tanti anche stellati. Ma sono persone che lavorano e fanno le cose mosse da valori: rispetto, passione, onestà. Se togliamo questi valori dalla vita ci rimane poco. La giustizia, l'onestà, il rispetto: se ti metti queste cose nello zaino e cominci a girare il mondo, non hai bisogno di nient'altro.
È una scelta dare voce alle persone che collaborano con te, dar loro fiducia. C'è un patto di crescita reciproca: io mi miglioro, ma ti devi migliorare anche tu. È chiaro che il mondo diventa sempre più piccolo, le culture si mischiano, i prodotti viaggiano velocissimi. Tanti prodotti sono fatti molto bene, talvolta anche meglio di quelli che può fare un agricoltore a 60 km da noi. Ma è una scelta di valore, non solo di prodotto.
Mi hai detto un giorno che Milano ti ha insegnato ad ascoltare. Cosa intendi esattamente?
L'ascolto è un valore molto alto, che non riguarda solamente l'intelligenza o l'umiltà, ma è soprattutto la curiosità di sapere, di stare a sentire chi forse ne sa più di te. Adesso i ristoranti si pongono tutti su un gradino un po' più alto rispetto ai loro ospiti: voi venite, mi avete scelto, io vi do quello che ritengo giusto per la mia espressione. Ma se dovessi elencare le cose che ho imparato dai clienti... sono tantissime. Perché succeda ti devi mettere un po' a nudo. Devi andare al tavolo, devi parlare, devi chiedere se una cosa è andata bene, ascoltare gli aneddoti su come si faceva quel piatto, su cosa succedeva al bar trent'anni fa in piazza San Marco. Devi ascoltare le storie, le sensazioni, le proposte, quello che susciti in loro quando mangiano alla tua tavola. È una questione che ritengo fondamentale per essere sempre più profondo in quello che proponi.
Quando sei giovane, sei molto arrogante. Pensi solo a un obiettivo: devo arrivare là, devo fare quello che mi sono messo in testa e ci arrivo in tutti i modi. Però poi capisci che ti devi dotare di un'intelligenza gastronomica, di un'anima. E questa la formi con tutti gli scambi che hai avuto nel corso degli anni nella tua vita professionale. Con gli scambi crei la tua identità.
Ritengo che sia anche un concetto politico: o stai da solo nella tua cucina e te la canti e te la suoni - noi siamo i più bravi, facciamo questo e quello - oppure come fai a sapere che sei bravo? Come fai a crearti la tua identità? Viaggi, provi, ascolti, ti metti in discussione, piano piano ci aggiungi del tuo. Perché le tagliatelle devono essere servite sempre calde col ragù? Perché non le facciamo fredde, tipo un ramen? Ho fatto i tagliolini in stile ramen con un centrifugato di piselli e acqua di pomodoro e quest'estate ho dovuto toglierli dal menu, perché le richieste erano eccessive: la pasta fredda lunga, quando servi 200 coperti, è davvero impegnativa. Ma la gente impazziva per quel piatto. È così che allarghi le tue visioni e gradualmente formi la tua identità, ma anche una nuova tradizione.
Come vedi l'evoluzione della ristorazione milanese, dall'Expo a oggi?
La grossa svolta del nostro ristorante, ma anche gastronomica della città, è avvenuta dopo Expo. Ci sentivamo tutti un po' più internazionali. Ha dato anche a molti ristoratori il coraggio di osare, di mettere qualcosa in più nel piatto, qualcosa di diverso. Da lì è stata una cascata, ogni anno si è scatenato un processo di evoluzioni, complici anche le nuove tecniche, le attrezzature. È emersa altrettanto la spettacolarizzazione del nostro lavoro, sono diventate comuni cose che fino a poco tempo prima non c'erano in giro: le tartare di Rubia gallega, il plancton marino, i ricci dell'Atlantico. Sapevamo che Milano si stava candidando a diventare una delle capitali europee del food. E in parte c'è riuscita.
Però ci sono anche tanti posti che rispecchiano la società di oggi: sono superficiali. Si vede anche da come comunicano. Succede sempre più spesso una cosa che mi fa impazzire: si aprono i ristoranti e poi arriva l'agenzia di turno che dice: "Devi trovare uno storytelling". Ma lo storytelling è l'identità dei ristoranti! Apri se hai qualcosa da dire, non è che apri un ristorante e solo dopo cerchi qualcosa da raccontare. Ma tutto questo assomiglia alla società in cui viviamo, la ristorazione non va per conto proprio, rappresenta il momento, il contesto...
Quali sono secondo te le prospettive per la ristorazione milanese?
C'è bisogno di fermarsi un attimo, di riflettere. Cercare di fare delle cose intelligenti, che abbiano riscontro nella vita reale, che siano tangibili, comprensibili dalle persone. Se oggi meno persone frequentano i ristoranti, ha certamente a che fare con le difficoltà economiche che riguardano sempre più cittadini: allora esco una volta in meno, però quando lo faccio voglio capire quello che mi succede, cosa mangio, dove mangio, parlare con una persona.
Le persone vogliono fare esperienze inclusive, non esclusive. Voglio poter parlare con lo chef, voglio dire la mia, voglio mangiare una cosa che capisco. Quando cominci ad avere un servizio molto distaccato, anche se molto elegante, quando cominci a mettere nel piatto un prodotto eccessivamente lavorato e sconosciuto per la maggior parte del pubblico, entri in una soglia critica. La nicchia del lusso e della creatività ci vuole, non fraintendermi: quei pochi che sanno fare ricerca è giustissimo che ci siano, però in molti hanno cercato di puntare troppo in alto e adesso lo stanno scontando.
In questo momento bisogna cercare di essere oggettivi e il sinonimo dell'intelligenza è cambiare assieme alla società. Se la società adesso vuole un altro tipo di ristorazione, tu devi essere pronto a dargliela. Se continui a chiuderti e a dire: "Ma non è vero, noi non siamo così, sono gli altri che...", non vai da nessuna parte.

Nel dietro le quinte di uno dei video che spopolano su Instagram
Ultimamente sei diventato anche un comunicatore molto seguito su Instagram, con le tue video-ricette: una specie di caso editoriale per la comunicazione social. Come è nata questa cosa?
Abbiamo due ragazze bravissime che fanno comunicazione, Maria Novella e Martina. Sono con noi da due anni e a un certo punto mi hanno detto: "Va tutto molto bene, i ristoranti sono pieni, però tu sei l'immagine: Se vuoi far passare quello che c'è dietro il nostro lavoro, ti metti lì, noi ti filmiamo, andiamo su Instagram...". Il mio account non l'avevo mai usato. Mi hanno fatto vedere i video di 10 o 15 cuochi-influencer, per farmi capire cosa avevano in mente: mi sono rifiutato. Perché nella maggior parte dei casi sono esercizi narcisistici del cuoco che ti dice: "Guarda, io faccio questa roba molto bella e tu invece non ci riuscirai".
Io non sono così. Amo condividere con tutti quello che faccio. Pubblichiamo solo le nostre ricette, alcune sono quelle che prepariamo al personale alla sera quando ci sediamo a tavola, ogni tanto tornano fuori classici come la pasta col tonno, questo tipo di cose. E propongo le ricette in maniera semplice: noi in cucina siamo in 14, abbiamo l'accortezza dei professionisti, però quelle ricette devono essere rese abbordabili per essere rifatte a casa.
Se devi diffondere la cultura del buon cibo, devi prendere la cucina dall'alto e riportarla a un piano democratico, altrimenti nella mia testa hai fallito. Un progetto come il Ratanà non è mio, è della città. La cucina è condivisa, i piatti li studiamo tutti assieme. Non c'è lo chef che dice: "Comando io, tu metti tre grammi di sale e non fare domande". I miei ragazzi in cucina fanno piatti a nastro, tanti non vanno bene, tanti li standardizziamo, li correggiamo, ma ognuno deve essere partecipe. Gestire un ristorante con questa idea è certamente più difficile che avere una cucina in cui sei il sovrano assoluto. Però a me piace così.