16-10-2025

Anthony Genovese: «Dopo 40 anni, prima di ogni servizio ho ancora il mal di pancia»

L'Asia nel dna, le difficoltà dei primi anni a Roma, i suoi tanti allievi: intervista con lo chef de Il Pagliaccio di Roma, dopo una straordinaria cena a Identità Golose Milano

Anthony Genovese si racconta a Identità Golose, d

Anthony Genovese si racconta a Identità Golose, dopo aver conquistato l'hub di via Romagnosi 3 con un menu celebrativo dei suoi 40 anni in cucina

Quando Anthony Genovese è arrivato a Identità Golose Milano, per la serata con cui abbiamo celebrato i suoi 40 anni di carriera, ha portato con sé non solo un menu speciale, ma anche la voglia di raccontarsi con leggerezza, con il sorriso e l'ironia che oggi lo contraddistinguono. E attraverso i piatti presentati al pubblico dell'hub (che trovate raccolti nella gallery in fondo all'articolo che state leggendo) l'ha fatto senza guardarsi alle spalle, ma proponendo la cucina che più lo rappresenta nel 2025.

Anche il menu antologico che ha creato al Pagliaccio per questo anniversario non è una raccolta di greatest hits, come ci tiene a precisare, ma un percorso di emozioni e ricordi che hanno segnato quattro decenni di una cucina senza confini. La conversazione con Genovese è stata quindi una chiacchierata informale e divertita, il modo migliore per raccontare alcuni momenti della sua carriera e affrontare i temi che ne hanno definito l'identità gastronomica: dal tocco asiatico che lo caratterizza alla battaglia per farsi accettare dalla Capitale, dalla nascita di una "scuola Genovese" al rapporto con una clientela sempre più variegata.

Foto di rito al pass di Identità Golose Milano

Foto di rito al pass di Identità Golose Milano

Come hai costruito il menu che hai proposto nel tuo ristorante per celebrare questi 40 anni di carriera?
Non volevo riprendere i piatti vecchi con una data a fianco. Il passato è importante, però volevo divertirmi con tutto quello che ho potuto imparare durante questi 40 anni di cucina. Ho preso le mie emozioni e ho provato a cucinarle, a proporle ai miei clienti. Volevo che la gente riconoscesse la mia firma, perché c'è un fil rouge nella mia cucina: il tocco asiatico, una certa tecnica, l'imprinting italiano e meridionale. Ho preso i gusti più che i piatti: i gusti e i ricordi dei miei viaggi.

Quando hai capito che questa fusione di influenze sarebbe diventata la tua cifra stilistica?
Ricordo che nel 2019 Carlo Passera scrisse un bellissimo articolo (l'articolo è questo, ndr) in cui diceva che Genovese a Roma non aveva più paura, raccontando un cuoco generoso e sereno nella sua cucina. Avevamo da poco superato la ristrutturazione del 2017, cinque mesi di chiusura, tutto da rifare. Con Matteo in quel momento ci siamo guardati e abbiamo detto: diamo gioia e felicità ai nostri clienti. Dopo il covid questa mia evoluzione è continuata, perché dopo quei mesi di ansia, di paura, di buio, mi sono detto: goditi la vita, fai quello che ti piace, fai felici i tuoi clienti senza dover dimostrare troppo.

Il Pagliaccio esiste da 22 anni, quindi poco meno di metà della tua carriera è precedente al tuo ristorante. Quali sono state le tappe più importanti?
Sicuramente fondamentali sono state le esperienze nel sud della Francia - Passedat su tutti. Il colpo di fulmine avvenne quando lasciai la Francia per l'Enoteca Pinchiorri nel 1990. Uscivo da una Francia basata su creme, panna, burro, astice, piccione, rombo. E arrivo da Annie Feolde che mi fa mangiare un baccalà con cecina, ceci e limone. Mi sono detto: questo è quello che amo, il sapore, la pulizia del piatto. E poi l'Asia, sempre con la signora Annie. Ricordo di essere atterrato a Bangkok e di aver sentito che ero a casa mia. Non mi sono mai sentito estraneo né in Malesia, né a Bangkok. A Tokyo era diverso, perché lì ci si confronta con una tradizione davvero fortissima. Ma in tutti i miei viaggi ho sempre sentito che l'Asia faceva parte del mio dna. 

Un giovanissimo Genovese

Un giovanissimo Genovese

C'è qualche altra parte del mondo che oggi ti interessa esplorare?
Il Medio Oriente mi incuriosisce tantissimo. Dal Libano alla Siria, dalla Turchia fino ad arrivare in Georgia. Sono tornato dal Turkmenistan con spezie molto interessanti. Poi tornerò anche in Messico alla fine del mese e quello è un mondo che non conosco ancora abbastanza. È affascinante, ma difficile: non puoi portare con te i loro prodotti in Italia e dunque risulta ancora più complesso riproporre quella cucina. 

Per scegliere le portate del menu di questa sera invece che pensieri hai fatto?
Ho voluto fare un menu limpido, chiaro. C'è un piatto dedicato alla città che amo di più, Roma: la Cacio e pepe, in una versione più mia. C'è l'attenzione alla stagionalità coi funghi, c'è un Agnello fantastico che strizza l'occhio alla Corea e al Giappone, c'è un dolce non dolce. La leggerezza: credo che oggi la cucina per me sia questo.

Il tuo rapporto con Roma come è nato e come si è evoluto?
Anni fa Paolo Marchi mi disse: «Quanto è difficile Roma». Gli risposi: «Verissimo, ma amo questa città». Ti avvolge, è una vecchia signora che ti fa stare bene anche se a volte la odi. C'è qualcosa di magico: alzi lo sguardo e c'è una madonna, una statua, una fontana, un cielo bellissimo, soprattutto a ottobre. Però Roma non è facile, è vero. A livello culinario ha fatto progressi, ma va presa con le pinze, non puoi attaccarla di petto, non è Milano. Ti deve accettare lei, non sei tu. Tu devi amarla, come prima cosa, dopo inizia il tuo percorso. Prima ero a Ravello, ma mi annoiavo: lavoravo in un posto meraviglioso, a Palazzo Sasso, ma volevo una vita diversa. Mi sono innamorato di una romana, qualcuno mi chiamò per aprire un ristorante a Roma, che non andò a buon fine. La mia amica Marion Lichtle, che era la pasticciera, lasciò Londra e mi disse: «Dobbiamo aprirci un ristorante insieme». Con la gioventù e la follia ci siamo buttati, ma l'inizio è stato molto difficile.

Nel 2016

Nel 2016

Come è cambiata l'identità del Pagliaccio in questi vent'anni?
Credo che all'inizio ci fosse un eccesso di aggressività da parte mia sul lato gastronomico, volevo colpire a tutti i costi con un surplus di Asia, di spezie, questo lo riconosco. Paolo Marchi fu il primo a credere in me, invitandomi nel 2006 a Identità Golose. Dovevamo salire sul palco prima di Carlo Cracco, tremavamo dalla paura! In quei primi anni non eravamo consapevoli di chi fossimo, pensavamo di dover dimostrare qualcosa a una città che ci girava le spalle, che non voleva capirci. Con immensa pazienza e umiltà siamo riusciti ad andare avanti, ma i primi sette-otto anni sono stati i più difficili.

Quanto ha contato avere Matteo Zappile con te a gestire la sala del ristorante?
Matteo
è stato il mio sostegno, quello che mi ha aperto gli occhi per farmi capire certi sbagli. Ed era lì quando avevo bisogno di sfogarmi. Matteo è Il Pagliaccio, l'ha sempre difeso come se fosse stato il proprietario, nei momenti difficili è sempre stato qui. Oggi però il ristorante è in buone mani con Veronica, Francesca, con Luca, il mio chef che è con me da 18 anni, con Orsetta la pasticciera, con Bruno Vincenti che è con noi da otto anni. Sono pilastri. Da solo dove potrei andare?

Nel 2018, poco dopo la ristrutturazione del ristorante

Nel 2018, poco dopo la ristrutturazione del ristorante

Se un giovane Anthony Genovese dovesse aprire oggi un ristorante quanto sarebbe diversa la sua storia?
Oggi da solo farebbe una fatica enorme, più di quella che abbiamo fatto noi. I costi sono elevatissimi, lo standard della qualità è cambiato, il personale è difficile da trovare e gestire. Francesca un giorno mi diceva: «Eravamo in cinque quando abbiamo preso la seconda stella Michelin. Iniziavamo alle otto, finivamo all'una. Era follia, ma anche gioia». Oggi è impossibile ritrovare questa mentalità. La mia paura è che nel futuro vedremo i grandi ristoranti in mano a holding, a gruppi che possono proteggerti. Oggi l'alta cucina per come la vediamo noi, interpretata da una singola persona, da un imprenditore da solo, è un'impresa ardua. Complicata e costosissima.

Come è cambiato il tuo lavoro sulle materie prime?
Quindici anni fa compravamo prodotti che magari non appartenevano alla tua terra, lo facevamo tutti. Oggi c'è una grandissima ricerca sul gusto, sulla qualità sincera, quella che puoi toccare con le mani. Non ordini più: vai a cercarla tu stesso, quasi porti il produttore a casa tua. Sei tu che vai incontro a lui. Due settimane fa a Trento ho conosciuto un ragazzo che fa uova sul lago di Garda. Era affascinante e questo mi dà ancora motivazione. C'è ancora passione, curiosità, voglia di fare.

E la clientela come è cambiata?
È una clientela esigente, non sempre facile. Oggi abbiamo una clientela che va dal Sud Africa al Nord Europa, passando per il Sud America e la Cina. Variopinta, alla quale ti devi adeguare. E parlando di adeguarsi, dedico questo ragionamento ai giovani che pensano solo a colpire, azzardando, sentendosi già dei fuoriclasse: il mio messaggio è «Fermati, lascia perdere la stampa, pensa ai tuoi clienti». Alla fine dell'anno sono i conti che parlano. Il cliente certi prodotti non li mangia? Ci deve essere un'alternativa. Per anni ci siamo rinchiusi in una torre d'avorio: questo è il menu e non si cambia, con una forma quasi di arroganza. Oggi devi dare l'alternativa a un cliente più esigente, senza per questo perdere la tua filosofia. Un cinese difficilmente mangia un formaggio forte, quindi non gli puoi imporre il pecorino, per fare un esempio. 

Gambero al luna park

Gambero al luna park

Guardando ai tuoi anni del Pagliaccio, ti vengono in mente dei piatti che ti rappresentano in modo particolare?
Ce ne sono molti, mi viene in mente l'Ostrica, camomilla, burrata e mela verde. Poi, pensando a cose più recenti, il Gambero al luna park: c'è il contrasto con lo zucchero filato, il gioco, mi sono divertito un sacco a ideare quel piatto e penso che anche la clientela si diverta a mangiarlo, forse è il piatto più "Genovesiano" che mi viene in mente. Ma c'è anche Piccione e abalone, che abbiamo ancora in carta in questo momento, anche se ne uscirà presto. È la sintesi di due mondi che mi appartengono: non voglio essere banale e parlare di unire carne e pesce, perché sono cose che i francesi fanno da sempre, però mi piace come quel piccione delicatissimo si abbina perfettamente a un abalone, portandoci verso l'estremo Oriente. Provo sincero piacere quando cucino questi piatti.

Volo al mare: piccione e abalone

Volo al mare: piccione e abalone

C'è una cosa che continuiamo a scrivere di te: come tu sia stato capace di creare una "scuola", una generazione di cuochi che si riconoscono come tuoi allievi. Cosa del tuo modo di lavorare con loro credi che ti abbia permesso di ottenere questo risultato, per nulla banale?
La sincerità. Credo che i miei ragazzi abbiano imparato l'amore per questo lavoro e la sincerità. Non c'è fuffa quando metti i piedi in cucina da me, in un mondo che invece è fatto veramente di tanta costruzione, di poca profondità delle emozioni. Credo abbiano capito il valore di un prodotto, per il dato economico, ma soprattutto per il rispetto, perché da noi questo è un elemento fondamentale: non è tutto dato. Ho cercato di comunicare loro cosa fosse davvero per me la cucina. Il risultato è che tutti questi ragazzi hanno portato via questo insegnamento e oggi ognuno lo interpreta a modo suo: da Ziantoni a Sodano, poi ancora Tonioni, fino all'ultimo che si chiama Giulio Zoli ed è bravissimo, ha aperto il suo ristorante vicino a piazza Farnese.

Negli anni credi che sia cambiato il tuo modo di insegnare?
Sono sempre esigente con me stesso e con loro, ma ho smesso di gridare, perché mi sono reso conto che non serve. E' con l'intelligenza e la sensibilità che devi spiegare al tuo staff dove vuoi andare, devi riuscire a farti conoscere e comprendere. Se qualcuno non è bravo, magari cerco di prenderlo in giro, di usare l'ironia per portarlo a migliorare. Come Roberto, l'ultimo ragazzo che è arrivato da noi: bravissimo, ma impaurito. Che fai, lo massacri? No, lo porti a lavorare bene con pazienza e ironia.

Quarant'anni di carriera: un ricordo difficile e uno bello?
Il brutto? Non dovevo lasciare Ravello così in fretta. Quattro anni e ho detto basta, perché mi annoiavo. Non ho capito che era l'inizio di qualcosa di importante, ho corso troppo e l'ho pagata cara. Il bello? Dopo 22 anni, Il Pagliaccio è ancora sulla cresta dell'onda. È un grandissimo onore per me e per il mio staff. E quello che dico sempre loro: non pensiamo a punteggi e guide, pensiamo a provare piacere in quello che facciamo e a dare piacere a chi viene da noi. Ho un carattere introverso, sono sempre in cucina, non sono bravo a esprimermi come tanti altri. Ma mi piace così.

Ti immagini in cucina ancora per molti anni?
Quarant'anni di carriera e tuttora ho il mal di pancia ogni servizio, come un cantante sul palco. Mi ha emozionato stasera cucinare per voi, mi tremano le gambe prima di lanciare un nuovo menu: questo mi fa capire che ho ancora tanto da dare e tanta voglia di amare questo lavoro. Se un giorno aprirò la porta del Pagliaccio e sentirò un rigetto, non saprò fare finta, dirò basta. Ma adesso non è questo il caso, anzi.


Il menu presentato a Identità Golose Milano

TONDE CONSISTENZE - Tartelletta Burrata e funghi

TONDE CONSISTENZE - Tartelletta Burrata e funghi

OMAGGIO ALLA CITTÀ ETERNA - La cacio e pepe

OMAGGIO ALLA CITTÀ ETERNA - La cacio e pepe

L’AGNELLO - Tartufo e caffè

L’AGNELLO - Tartufo e caffè

TRASPARENZE - Avocado, shiso verde e kefir

TRASPARENZE - Avocado, shiso verde e kefir

Coccole finali

Coccole finali


Identità Golose Milano

Racconti, storie e immagini dal primo Hub Internazionale della Gastronomia, in via Romagnosi 3 a Milano

Niccolò Vecchia

di

Niccolò Vecchia

Giornalista milanese. A 8 anni gli hanno regalato un disco di Springsteen e non si è più ripreso. Musica e gastronomia sono le sue passioni. Fa parte della redazione di Identità Golose dal 2014, dal 1997 è voce di Radio Popolare 
Instagram: @NiccoloVecchia

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