Trasformare i pesci impigliati sulle reti (e spesso a un passo dalla spazzatura) in deliziose zuppe: non è un’abitudine della zero waste culture dell’ultimo decennio ma una pratica vecchia come il mondo.
In Italia ce ne parla già, nel ricettario che unì la nazione, Pellegrino Artusi, anno 1891. Il gastronomo romagnolo fu disposto ad ammettere che il nome più adatto per questa pratica non era il brodetto dei corregionali ma il cacciucco, come usava in Toscana. Questo perché il brodetto era in realtà «una minestra che s’usa per Pasqua d’uova, cioè una zuppa di pane in brodo, legata con uova frullate e agro di limone».
Centotrentacinque anni dopo, le zuppe di pesce d’Italia si dividono ancora per il lungo: a sinistra c’è il cacciucco dei tirrenici, a destra il brodetto degli adriatici. In più, se andassimo a spulciare i ricettari del solo versante orientale, troveremmo tante versioni di brodetto quanti sono i comuni che si trovano sulla litoranea da Trieste al Salento. È il potere e insieme il limite della cucina italiana: una varietà di ricette e tradizioni senza pari ma anche un’enorme difficoltà di codifica univoca che storicamente azzoppa le possibilità di replica fuori dai nostri lidi.
Sono riflessioni che sovvengono a stare seduti a tavola Da Lucio, il nuovo luminoso ristorante di Jacopo Ticchi a Rimini, un progetto così interessante che l’abbiamo raccontato dal principio due volte, con Niccolò Vecchia e Paolo Marchi. Nella tana dei pesci frollati e delle delizie ittiche alla brace ecco arrivare, in fondo al sentiero delle sapidità, il Brodetto tradizionale di pesci, molluschi e crostacei cotto nel forno a legna di Lucio.

Il carrello al tavolo (foto Zanatta)
Giacomo Imbalzano, compagno di avventure dello chef, porta al tavolo un carrello con i piatti da portata sormontati da un ampio coccio rosso acceso: la ceramica di fuori e la salsa al pomodoro dentro. «Faccio il brodetto da sempre», spiega Ticchi, «l’ho riproposto nella sede nuova per spiegare ai clienti che non siamo una tavola
fighetta. Tenevo a continuare a offrire tutto il comfort e la familiarità che solo un brodetto può dare». Classicità sì ma con le accortezze di chi questiona preparazioni di lungo corso, immutabili solo nei pensieri dei cuochi pavidi. E poi Jacopo conosce bene il momento storico che viviamo, piuttosto conservatore e incline all’auto-consolazione.
«I nostro pescatori», dettaglia, «dividono il pescato in pezzature: da un lato c’è il misto pregiato; dall’altro il misto da zuppa, composto dalle parti meno nobili dei pesci più piccoli: scorfanetti, gallinelle, mazzole, pesci serra, razze, soglioline, pesci azzurri che noi utilizziamo per la salsa, contrariamente alla tradizione che ricorre a pesci interi, che però rimangono sfibrati dalle lunghe cotture».

Chef Jacopo Ticchi (foto Filippo L'Astorina)
Gli ultimi passaggi importanti per la riuscita della salsa: «Filtrare ed eliminare le impurità della salsa, passare in forno parti nobili e salsa e unire molluschi come cozze e vongole e crostacei come canocchie e mazzancolle all’insieme».
La salsa risulterà densa e iper-concentrata alla fine dell’assaggio, per la proverbiale scarpetta: «È un pensiero che ho ricavato da
Mauro Uliassi, che teneva in menu un piatto che si chiamava proprio
Scarpetta di Brodetto, un singolo pezzo di pane da intingere nel sugo di pesce concentrato».
Un brodetto che quasi sempre vale come piatto unico. Perché, ammoniva
Pellegrino Artusi, «È sempre un cibo assai grave e bisogna guardarsi dal farne una scorpacciata».