27-12-2017
Gualtiero Marchesi (1930-2017) con quattro tra i suoi allievi più illustri. Da sinistra, Carlo Cracco, Enrico Crippa, Paolo Lopriore e Matteo Baronetto
Abbiamo raggiunto al telefono ex allievi e colleghi di Gualtiero Marchesi. Ognuno di loro ci ha lasciato un'immagine, un ricordo (contenuto dinamico)
Massimiliano Alajmo (Le Calandre, Rubano) «Mi legano a Gualtiero Marchesi migliaia di aneddoti e immagini. A 12 anni c'era un ritaglio di giornale sul tavolo di marmo di mia madre: aveva già allora un’ascendente enorme nelle nostre cucine. Andai a mangiare da lui a Milano nel 1990. Avevo 16 anni, ricordo in maniera indelebile tutto il menu, erano piatti che più che contemporanei. Ricordo benissimo anche i tempi dell’Albereta: al suo fianco c’era Paolo Lopriore, era forse il momento in cui lo vedevo più sorridente di sempre. Stamattina siamo entrati in cucina, tutta la brigata era costernata. Una botta».
Corrado Assenza (Caffè Sicilia, Noto) «Quand’ero ragazzo sognavo di andare a mangiare in due posti: a Milano da Gualtiero Marchesi e al San Domenico di Imola. Nel primo non sono mai riuscito ad andare perché ha chiuso prima che potessi raggranellare gli spiccioli sufficienti. Ho conosciuto il maestro alla fine dello scorso millennio, quando inaugurammo la scuola di Alma a Colorno; lui era il rettore, io semplice membro del comitato tecnico-scientifico. Mi avvicinò e mi raccontò la sua passione per la Sicilia. Parlavamo raramente di cucina, preferivamo scambiare idee sull’arte, la musica, la pittura, il mondo che cambiava attorno a noi. In quei momenti capivo tutto il valore e l’importanza della persona e del professionista. Ha fatto diventare una delle mille possibili cucine italiane la cucina italiana per eccellenza. Assieme ad Aimo Moroni è il padre della ristorazione italiana. Li divideva una grande differenza: Gualtiero non aveva mai fatto una vera e propria gavetta, era un prodotto dell’alta borghesia milanese. Aimo aveva un’estrazione popolare, lo cominciò a muovere la fame del secondo dopoguerra. Marchesi ci ha permesso di confrontarci con l’alta cucina dei francesi. Oggi dovremmo affrancarci da quell’egida e perseguire un’identità materiale e nazionale di estrazione popolare». Matteo Baronetto (Del Cambio, Torino, ex allievo) «Ha segnato il percorso di ognuno di noi, anche il mio, che ero l’ultimo dei giovani alla corte di Erbusco. Mi è sempre rimasta in mente una frase che recitava spesso: ‘Si può fare meglio’, detta con tono tranquillo. Vale come monito per tutti noi cuochi».
Brendan Becht (Zazà Ramen, Milano): «Anch’io, suo “Olandese Volante”, sono triste, era mio secondo padre (era nato nello stesso anno del mio padre ed entrambi avevano conosciuto Piero Manzoni), e non passerà più da Zazà Ramen per vedere le mostre e mangiare una ciotola di pasta fresca in brodo...».
Heinz Beck (La Pergola, Roma) «Prima di aprire l’Hostaria dell’orso qui a Roma venne da me a dirmelo in anteprima. Ma come - pensai - un cuoco così importante che fa il giro dei ristoranti per spiegare ai colleghi che gli aprirà accanto? Lo trovai un gesto magnifico». Andrea Berton (Berton, Milano, ex allievo) «Quando facevo lo chef di cucina all’Albereta, alla fine del servizio mi teneva a parlare per ore fino a notte fonda. Sapeva tutto: cibo, cultura, arte, vita quotidiana. Momenti di formazione impagabile, un’intimità che ha segnato il mio percorso per sempre». Massimo Bottura (Osteria Francescana, Modena) «Tutti sappiamo cos’ha rappresentato per la cucina italiana: ha segnato il passaggio dalla cucina del popolo post-Artusi al ristorante compiuto. Era l’esemplificazione assoluta del motto ‘fare tutto e poi dimenticarsi di tutto’. Dall’hotellerie dei genitori passò all’apprendistato dai Troisgros e poi si innamorò del Giappone. Rubava idee ovunque andasse e le rendeva masticabili. Rubò pure la foglia d’oro alla Madonnina e la piazzò sopra a un riso. Un’opera d’arte».
Cristina Bowerman (Glass, Roma) «Nel 2005, dopo 16 anni trascorsi negli Stati Uniti, tornai a lavorare a Roma. Ero in cucina al Convivio Troiani quando a un certo punto bussò lui dalla porta sul retro. ‘C’è Angelo?’, mi fece. ‘Certo, chi devo annunciare?’. ‘Gualtiero’, mi rispose lui. Oddio, non l’avevo riconosciuto. Andai dallo chef e gli confessai la magra figura. Tornando in cucina chiesi scusa al maestro. Che mi rispose: ‘Non ti preoccupare, non sono più bello come un tempo’. E sfoggiò un grande sorriso».
Daniel Canzian e Gualtiero Marchesi, insieme per 8 anni al Marchesino
Con Alfio Ghezzi
Aimo Moroni (Il Luogo di Aimo e Nadia, Milano) «Entrai per la prima volta in via Bonvesin de la Riva poco dopo che aprì, alla fine degli anni Settanta: già si capiva la sua grandezza, non solo nei piatti ma nell’organizzazione complessiva, di cucina e sala, un merito storico che dobbiamo riconoscergli. Una volta cucinai per lui al Four Seasons un risotto ai fiori di zucca e tartufo. Ne mangiò due di fila. Poi mi disse: ‘Se rimango qui ancora un po’ non ne rimane più per gli altri’. Perdo un amico vero, lascia un vuoto enorme».
Con Berton, Oldani e Cracco
Carlo Cracco sul suo profilo instagram
Niko Romito (Reale Casadonna, Castel di Sangro) «Non ho mai lavorato con lui perché ho un percorso personale diverso alle spalle. L’ho incontrato diverse volte: lo salutavo come si saluta un maestro, ossequioso. Negli ultimi tempi si ricordava di me, conosceva il mio lavoro e questo mi faceva grande piacere. È stato anche da Spazio a Milano, mostrando ai ragazzi una disponibilità incredibile. Raccontava sempre aneddoti e ti parlava delle sue cose del passato. Gli piaceva sempre essere al centro dell’attenzione. Qualche tempo fa abbiamo fatto assieme un servizio fotografo per Vogue. Sul set eravamo con Aimo, Bottura, Oldani. A un certo punto si ferma un attimo e si gira verso di noi: ‘voi non dovete stare qui, merito di starci solo io’, scherzava. Aveva lo smoking e il cappello bianco da cuoco. E' stato il primo a parlare di eleganza, leggerezza, terriorio, regionalità. Ha assegnato una dignità alla nostra professione.
Gualtiero Marchesi ed Ezio Santin, un comune passato a 3 stelle
Antonio Santini (Dal Pescatore, Canneto sull’Oglio) «Lo conobbi poco dopo che aprì in via Bonvesin de la Riva. Mi ci avevano portato Angelo e Pietro Solci, titolari di un’enoteca attigua. Si capiva da subito lo spessore straordinario dell’uomo. Ci siamo confrontati tantissime volte, tra l'altro fondando assieme Le Soste. L’ultima volta che ci siamo visti era provato dalla malattia ma anche molto felice per l'uscita del film “The Great Italian”, presentato qualche mese fa a Cannes. È stato un “maestro” nel vero senso della parola: sapeva tirare fuori il meglio da ogni allievo. Bastava seguirne l'esempio e non sbagliavi. Un uomo anche scomodo, diretto: non diceva mai ovvietà. Ogni volta ti spiazzava. Una personalità unica, straordinaria». Mauro Uliassi (Uliassi, Senigallia) «Lo incontrai per la prima volta nel 1987, a un concorso di pasticceria a Milano. Si congratulava coi vincitori. Mi autografò un libro, facendomi i complimenti. Quindici anni dopo me lo sono ritrovato al ristorante: mangiava e beveva come un ragazzo di 20 anni. Gli ho fatto autografare anche la quarta di copertina. È sempre stato molto cordiale, nonostante l’allure da maestro. Ma se provavi a metterti alla pari con lui, ti bruciava con le sue battute taglienti. Ogni chef/patron moderno dovrebbe riconoscergli il merito di essere stato il primo».
Il punto di Gabriele Zanatta: insegne, cuochi e ghiotti orientamenti in Italia e nel mondo
di
classe 1973, laurea in Filosofia, coordina la Guida ai Ristoranti di Identità Golose e tiene lezioni di storia della gastronomia presso istituti e università. instagram @gabrielezanatt
Insegne, cuochi e ghiotti orientamenti: a narrarceli è Gabriele Zanatta, laureato in Filosofia, nonché coordinatore della Guida ai Ristoranti di Identità Golose. Il suo punto di vista va ben oltre la superficie, per esplorare profondità e ampiezza della tavola, di tutto quello che è Zanattamente Buono.