Viviana Varese porta sul palco un meraviglioso pithivier (Pithivier con petto d'anatra e foie gras, arricchito di farcia d'anatra ai sette pepi e di arancia candita, il tutto racchiuso in foglie di cavolo e in un velo di pasta brisé riccamente decorata, alla base un goccio di ossimele, “la saba del Seicento”, ossia una salsa agrodolce di miele, aceto e spezie; in accompagnamento un'insalata di germogli e arance fresche, «in onore della ricetta tradizionale dell'anatra all'arancia») e dalla sala scatta subito un applauso: non è usuale presentare questo tipo di preparazioni classiche, tipiche delle antiche case aristocratiche, sul palco di un congresso di alta cucina contemporanea com’è Gastronomika a San Sebastian, abituato semmai a esplorare le nuove frontiere della ricerca gastronomica.

Viviana Varese sul palco di Gastronomika
Di ricerca gastronomica ne ha pur fatta tanta, la
Varese: non guardando al futuro, ma appunto compulsando testi impolverati, annotando ricette ormai perlopiù neglette nell’haute cuisine dell’oggi. È così che,
al suo ristorante nel magnifico hotel
Passalacqua, sul Lago di Como, può proporre aspic e gateaux, timballi e sartù, pâtés en croûte e appunto pithiviers, ossia tutto l’armamentario dei banchetti nobili d’antan, a innervare quell’idea di recupero di una grandeur a sangue blu che è l’idea alla base della proposta di una chef «che riprende il passato in un progetto di riscoperta della tavola degli hotel di lusso di un tempo, riletta dalla fantasia di una cuoca davvero rilevante», così la presentano gli organizzatori di Gastronomika. Che aggiungono: «
José Carlos Capel (il decano dei critici gastronomici spagnoli,
ndr) ci dice che la colazione al Passalacqua è tra le più spettacolari che abbia gustato nella sua vita». Noi confermiamo,
lo abbiamo anche scritto qui.

Il Pithivier d’agnello ripieno di foie gras, verza e mela cotogna sciroppata che abbiamo gustato al Passalacqua, lo abbiamo raccontato qui
Lavora duro,
Viviana. Ma anche si diverte e fa divertire il pubblico di
Gastronomika quando elenca tutte quello che la fiorentina
Caterina de’Medici insegnò Oltralpe, nel Cinquecento («Innovò il servizio separando il dolce dal salato, introdusse l’uso della forchetta e poi l’utilizzo di carciofi, broccoli, piselli, e ancora la preparazione di zuppa di cipolle, crêpes, salsa colla – che poi divenne la besciamella -, anatra all’arancia, panettone, marron glacé, marmellata, pasta choux, éclair, macaron…», siamo tra mito e realtà storica), per concludere con un sorriso: «Insomma, i francesi non hanno inventato nulla!». Che poi - nota interessante - in questo studio del passato, dunque dei banchetti nobili del Seicento e Settecento, la
Varese rileva un aspetto che pone un parallelo con le dinamiche odierne: «Quella era una cucina paradossalmente molto globalizzata», là dove il “globo” era l’Europa, «perché i grandi cuochi dei re o delle famiglie aristocratiche giravano molto, apprendevano dai colleghi come facciamo anche noi oggi, leggevano i libri degli altri chef, componevano quindi piatti in cui l’esotismo, la spezia, l’ingrediente inconsueto che appartenesse anche a una diversa cultura gastronomica, finivano con l’essere un plus».

La Varese e i timballi del Passalacqua

Timballo di bucatini con salsa al ragù

Aspic con pomodori verdi e rossi
A pescare in questa miniera d’oro è inevitabile che la
Varese si rifaccia molto alla Francia ma forse ancor di più alla cucina dei Monsù (o Monzù), ossia alla tavola alta del borbonico e ricco Regno delle Due Sicilie: ecco quindi un magnifico timballo di pasta brisée (realizzata con burro e grasso di maiale) che racchiude una pasta al ragù al pomodoro con piselli; un altro timballo di pasta frolla ripieno di risotto alla milanese… E poi prepara un semplice
Aspic con pomodori verdi e rossi, dunque acqua di pomodori con basilico, menta, scorza di lime e di limone, quindi addensata, gelificata e servita incorporando un’insalata di pomodori e guarnendo con la nota mediterranea e contemporanea della stracciatella e del sorbetto all’acqua di pomodoro, limone e basilico. E il
Cerino di bucatini, preparazione napoletana del tutto simile al timballo ma tradizionalmente con bucatini al burro e pangrattato, la chef lo ripropone in veste più opulenta, con ziti al ragù di selvaggina, oppure col “ragù di Costiera”, quello della sua infanzia, ossia differenti tipi di carne e pomodoro che vanno a sobbollire lentamente per almeno 24 ore, «le nonne lo preparavano il sabato mattina per averlo pronto l’indomani, per il pranzo della domenica». Il tocco finale era aggiungervi un poco di cioccolato, gastronomicamente per avere una nota tostata e amaricante, psicologicamente per nobilitare ulteriormente la portata principale del dì di festa. La chef mette anche pecorino e parmigiano reggiano, alla base una salsa densa dello stesso ragù.