Paralia Ampeli, costa ovest di Folegandros. Nessun ombrellone, nessun beach club. Solo sassi, vento e un blu che fa dimenticare il calendario. Qui, al termine di una strada sterrata che si interrompe in una caletta nascosta, nasce Spina: ristorante, luogo di sosta, piccola comunità italiana trapiantata tra i sassi dell'Egeo.
Il nome è un omaggio stratificato: Spina era la prima città etrusca costruita sul mare, un ritorno ideale alle origini. Ma anche un riferimento al cardo, pianta spinosa che cresce selvatica nei dintorni, e infine una spina nel cuore, quella che resta quando ci si innamora di un luogo. Folegandros è una di quelle Cicladi ancora poco toccate dall'over tourism. Una sola strada collega il porto ad Ano Meria, attraversando la Chora. Gli unici incontri, lungo il tragitto, sono con asini, galline e gatti. Tutto invita alla lentezza, alla sottrazione.
«Questo pezzo ha una luce incredibile... è una baiettina magica», racconta
Matteo Serri, fotografo e imprenditore modenese, fondatore del progetto. «Cercavo un posto dove svegliarmi al mattino, nuotare, e poi avere il mio posto». Con lui c'è
Alessandro Pagnoni, chef e amico di lunga data. Ha lavorato in realtà solide e impegnative,
Amerigo a Savigno,
Franceschetta58 a Modena, costruendo una cucina matura, disciplinata, in grado oggi di reggere un progetto che vive sul bordo del nulla.
Il gas va e viene, spesso in ritardo rispetto ai desideri della cucina. La corrente elettrica basta appena per ricaricare un telefono, non molto di più. Per questo si griglia, quasi tutto. E da questa necessità nasce un linguaggio preciso: amaro, affumicato, bruciato e acido diventano i fili conduttori del menu. Il risultato di un contesto che detta le regole. Il menù cambia ogni giorno, non per creatività forzata ma per adesione al presente: ciò che offre il mare, ciò che si raccoglie tra i sassi, la luce, il vento. Cucinare a
Spina non è solo tecnica: è adattamento, osservazione, riduzione all'essenziale. Una cucina che non può permettersi l'astrazione: ogni piatto è figlio del luogo e dell'istante.
«Abbiamo un menù fisso, ma cambia ogni giorno, in base al pescato, a cosa troviamo in orto», spiega Pagnoni. «A volte arriva una ricciola, a volte dei pesci da scoglio: triglie, scorfani, tracine. Si lavora così».
Si parte con piatti in condivisione, diretti, netti. Una
Pappa al pomodoro intensa, spessa, senza nostalgie.
Vitello tonnato rosa e misurato, con una salsa fresca, che evita la trappola della pesantezza.
Anguria affumicata che sorprende per equilibrio e per non averla banalizzata a sashimi. Il
Porro grigliato con salsa di pomodoro, mandorle e aceto è un esercizio di semplicità: dolcezza, tostatura, un'acidità che risveglia.
Meno riuscito, per struttura e sapidità, il
Polpo con patate; perfettamente riuscito, invece, il
Risotto al pomodoro, origano e burro affumicato. Un piatto che sintetizza il progetto: tecnica italiana, sapore greco, spirito mediterraneo. Radici e adattamento, senza mimetismi. A chiusura, una
Granita di mandorle con crema di caffè fatta a mano: essenziale, precisa, senza dolcezze inutili. Un finale che resta perfettamente in tono con il paesaggio greco.
I prodotti che mancano sull'isola, parmigiano, pasta, riso, arrivano dall'Italia. Il resto si coltiva tra sassi e sole salmastro. Le erbe crescono piegate dal vento, nel loro orto. Eppure è da lì che arrivano le note più fresche dei piatti: aromi mediterranei. La carta dei vini è breve, ragionata, coerente con l'impostazione del progetto. Le referenze italiane privilegiano piccoli produttori emiliani, mentre la selezione greca è il frutto di ricerca di vignaioli locali. Nonostante le difficoltà logistiche, nulla è lasciato al caso.
Il ristorante è aperto da giugno a fine settembre. Non ci sono porte né finestre: solo un bancone, 30 coperti, poche suite. L'unico grande tavolo, il bancone e la cucina sono sotto una tettoia leggera che lascia entrare il vento. Il rumore del mare è costante, le luci sono calde, minime, pensate per non disturbare la notte.
Dalle 18 in poi si può salire dalla spiaggia per un cocktail, un bicchiere di vino, un aperitivo che ha la luce del tramonto come ingrediente principale. Poi arriva la cena, senza rumore, senza palcoscenico. Solo piatti e paesaggio.
«Qui, dopo le sei di sera, non ci sarebbe più nessuno», racconta Serri. «Ma ora c'è gente che arriva, si ferma, scopre l'isola. Più cose belle ci sono, più l'isola vive». Conclude Matteo. Il progetto ha misura e cura sincera. La cucina è il centro, ma non il protagonista assoluto. E forse è proprio questo che si incastra bene tra le rocce di Folegandros.