Dicono che Elia Rizzo sia un grande chef, ma con un caratterino… Burbero, dicono. Dicono poi che il figlio Matteo, classe 1984, sia bravo quanto il padre, e anche più comunicativo: magari non un affabulatore fluviale – buon sangue non mente – ma, insomma, pur sempre figlio di questi tempi social. Dicono anche che al loro Il Desco veronese si mangi sempre straordinariamente bene; che l’equilibrio tra lo stile più classico di Rizzo senior e la creatività di Rizzo junior sia ormai messo a punto, dopo le ovvie difficoltà iniziali causa – complice la crisi e chi più ne ha più ne metta – della perdita della seconda stella, nel 2014, si era in pieno passaggio generazionale, e mica semplice: «Si litigava, ho dovuto mettere freni a Matteo, non gli permettevo di stravolgere tutto…».
Qui c’è la prima notizia: Elia Rizzo ha invece uno splendido carattere. Meglio: ha carattere forte, consapevolezza, determinazione, «è difficile essere papà e chef. Oggi posso dire di essermela cavata, dai». Si scoglie, basta toccare i tasti giusti, gli argomenti che lo coinvolgono, Matteo su tutti (l’altro figlio, Pietro, 28 anni, è più defilato. Da un anno e mezzo se ne sta per conto suo a preparare ottime pizze al Leon d’Oro). Ed è questo il tema dell’articolo: padri e figli nella stessa cucina, quel passaggio necessario che abbiamo già raccontato da un differente punto di vista, quello di Aimo Moroni e la figlia Stefania, che però è splendida governatrice della sala, ai fornelli stanno i nipotini acquisiti Ale Negrini e Fabio Pisani (leggi qui e qui).

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Passo indietro.
Elia Rizzo è un 1953, aveva tre anni quando i suoi presero a gestire nel capoluogo scaligero la
Bottega del Vino. Cresciuto tra i fuochi, vi si appassionò subito, ancora bambino: «Andavamo in giro a mangiare, studiavo i piatti che più mi piacevano e, appena tornato a casa, li rifacevo una, due, dieci, venti volte, finché il risultato non si sembrava ottimale». Così tenace, a vent’anni guida la cucina della vecchia insegna, fino al 1981, nascita de
Il Desco, una storia di successo, la prima stella giunge nel 1985 («Giuro, non sapevo cosa fosse»). Quando è scoccato il momento di
Matteo? «Quando l’ho visto davvero motivato. E’ stato complesso, è difficile frenare l’impeto giovanile, io magari lo limitavo perché cercasse l’armonia, il gusto nel piatto, più che l’innovazione fine a sé stessa. Ma capivo che in lui qualcosa ardeva dentro, non sperimentava solo per fare il figo. Credo di aver gestito questa situazione da padre intelligente, che vuole valorizzare il suo ragazzo e mettersi poco a poco in disparte, continuando a seguirlo. Bisogna essere tanto forti, quanto duri».
Matteo ha nei confronti di Elia un misto di devozione e spirito competitivo: «Mio padre mi ha sempre affascinato per le sue capacità, che sono difficili da eguagliare. E’ magnetico, ci si ferma a guardarlo mentre danza tra le pentole, ha un naturale feeling con il cibo, che non ho visto in nessun altro. Sa trattare la materia con un tocco unico, e poi è anche un modello di imprenditore: ha aperto 14 insegne, oggi partecipiamo ad altri tre locali oltre a questo, io faccio fatica con uno». E però, c’è anche l’altro verso: «Ci scontravamo spesso, volevo scappare. Sarei voluto diventare come lui ma mi mancava l’aria, lo spazio». Nel frattempo studi liceali, poi Lingue all’università, la pallanuoto in A2 col Verona e nel weekend o in estate a dare una mano in cucina «ma mica per passione, solo perché mi faceva comodo avere qualche soldo».

Cosa fa un buon genitore se vuole crescere bene il figlio? Lo manda in giro: Londra, Las Vegas, Barcellona, Los Angeles. A farsi le ossa in cucina lontano da quell’
Elia così ingombrante, il confronto-scontro viene così rinviato all’inizio dell’attuale decade. Ma quando avviene, è emblematico. Da una parte, spiega
Matteo, l’esperto chef «nato in un’osteria tra le più importanti dell’epoca, una sorta di Facebook scaligero ante litteram, trovavi ubriaconi e giornalisti, il piccolo mondo veronese passava da lì. Grande tradizione legata alla cultura locale». Dall’altra lui, il ragazzo reduce da tutt’altro percorso, «internazionale, multietnico. Spezie ed estetica», che a dirla così
Elia fa una faccia…
Eppure oggi nei piatti de Il Desco – buonissimi – si trova un inatteso bilanciamento tra queste personalità complesse. «Io – dice Matteo – ci metto lo zampino su tante piccole cose, dalla mise en place all’approccio con la sala, fino alla rielaborazione di alcune nostre ricette storiche. I risotti, il baccalà». Un esempio? «Il risotto all’astice con l’erba cipollina, un long seller. La base è la stessa, però aggiungo polvere di coriandolo, lime… Poi ho introdotto nuove tecniche in pasticceria, sei croccantezze diverse, nuove cialde. Lui, ovvio, è più classico».

Il "nuovo" Risotto all'astice
“Lui” sogghigna: «Cinque anni fa non glielo permettevo proprio di stravolgere i miei piatti». E ora? «E ora non lo vuole più fare perché ha capito che bisogna puntare sul gusto e non sulla scenografia. Non bisogna preoccuparsi se un piatto è semplice, bisogna preoccuparsi che sia buono. Inventori veri ce ne sono pochi:
Blumenthal,
Adrià… Chi non è un genio, ma ha talento, prenda spunto dal passato e provi a migliorarlo». Insomma
Rizzo senior ha plasmato
Rizzo jr? «Ho lavorato bene anche io. Anni fa gli dissi: non stare con me, litighiamo. Rimase, è stata una scelta bella, da ragazzo è diventato uomo. E’ bravo, tenace (come il padre,
ndr), ha obiettivi, è ambizioso quanto non guasta. Mi ci rivedo abbastanza, nella sua crescita: solo che lui non aveva un controllore come me al fianco, nel bene e nel male. E’ difficile essere padre e chef, ma quando trovi l’armonia diventa bellissimo: le soddisfazioni le lasci ai figli, le difficoltà le condividi. La perdita della seconda stella? Tutto sommato non mi è dispiaciuta più di tanto, non ci ha abbattuti ma stimolati: gli allori in futuro saranno più suoi che miei, perché in me la voglia c’è sempre, ma è subentrata un po’ di stanchezza, 12 ore in piedi tutti i giorni…».
Elia fa quello che è pronto a ritirarsi, Matteo non conferma mica: «Macché! Lo scontro continua, lui non vuole decidersi a mollare – dice sorridendo, eh, senza astio, anzi con immenso affetto – Siamo sempre due galli in un pollaio, anche se ci riesce bene. Io mi sento pronto a essere indipendente, scalpito, poi arriva papà in cucina e chiede: “Stasera che faccio?” e resta lì, non molla». Per fortuna almeno Alice, figlia di Matteo, è troppo piccola per inserirsi nella straordinaria disputa generazionale: ha poco più di un anno e mezzo.
Ma Elia e Matteo sono uno spettacolo, davvero. A Il Desco si mangia splendidamente, quella voce che abbiamo citato all’inizio era vera. E poi ci sono loro: i due galli sembrano di nuovo due stelle, appunto, a vederli parlare. Altroché.