Ürün significa “prodotto” in lingua turca: era questo il tema centrale di Gastromasa, opulento congresso di cucina la cui terza edizione si è svolta nei giorni scorsi a Istanbul, con gran concorso di giornalisti di tutto il mondo, tra i quali lo scrivente. Sul palco, alcuni dei più bei nomi della grande ristorazione internazionale, da Mauro Colagreco a Joan Roca, da Virgilio Martinez a Paco Torreblanca, da Carlos Garcia a David Thompson, e poi alcuni giovani in ascesa (Kamilla Seidler, Andrea Dopico, Hiroyasu Kawate…) fino agli italiani Gianluca Fusto e Luigi Taglienti. Torneremo a parlare di loro.

Tsumura... volante a Identità Milano 2016
C'era anche
Mitsuharu Tsumura, già a
Identità Milano: peruviano d'origine
jap, del
Maido di Lima, considerato il più grande chef
nikkei vivente. Spiegazione: molti giapponesi immigrati in Perù dopo la Prima Guerra Mondiale (oggi sono circa 60mila) presero ad aprire ristoranti, dove servivano piatti di locale cucina creola, poiché la gente chiedeva loro quelli. Poco a poco inserirono però nelle ricette le varianti che venivano loro naturali, in base alla tradizione d'origine; ad esempio molto pesce.
Nel Perù precolombiano il rapporto col mare era fortissimo, coi Conquistadores venne un po’ meno. A inizio Novecento i peruviani mangiavano pesce, ma solo poco e per pochi, fritto o a lungo marinato nel succo di lime. Stop. «Fino a 50 anni fa nessuno in Perù assaggiava il polpo, i pescatori lo buttavano via. Si poteva andare sulle spiagge e vedere tutti questi polpi a terra, coi giapponesi che li facevano propri» (Tsumura). E qualcosa del genere si può dire per anguille e calamari, lumache e alghe, e in fondo anche per il tonno, persino per i gamberi, le capesante o le cozze, considerati un tempo “cibo per poveri”. Grazie ai nikkei oggi compongono tutti favolosi ceviche, «i giapponesi hanno rivoluzionato il nostro piatto» ha ammesso Gastón Acurio.

Di nuovo Tsumura e il mocambo a Gastromasa 2017
Insomma, ecco cos’è oggi la nikkei: non una cucina giapponese con influenze peruviane, né una cucina peruviana con tocchi giapponesi. E’ l’incontro tra due popoli distanti 20mila km, è l’esito di una necessità e di un istinto. La necessità è quella degli immigrati giapponesi in Perù di adattare lo stile alimentare ai prodotti della nuova patria, che con sorpresa scoprirono spesso affini anche la loro tradizione: pesce, verdure e riso. L’istinto li portò a una fusione naturale, inconsapevole, tra due stili così diversi. Decenni di contaminazione forzata tra culture – anche gastronomiche – millenarie e quindi tenaci, hanno dato vita a qualcosa di inedito e straordinario. «Il contrasto è nel tono generale, la cucina peruviana è hard rock, forte, piccante, vibrante. Quella jap è musica classica, più sottile, delicata e dedicata al prodotto» (
Tsumura).

Un contadino dell'Amazzonia e il mocambo appena colto
Il
Maido, aperto nel 2009, è oggi numero 8 al mondo secondo la
The World 50 Best Restaurants, addirittura primo per la
Latin Americas's 50 Best Restaurants.
Tsumura sta indirizzando le sue ricerche
avant garde sull'Amazzonia, combinando i frutti esotici con gli intensi sapori della cucina nikkei: il concetto di umami traslato nella più grande foresta pluviale del pianeta. E proprio dall’Amazzonia ha preso l’
ürün, il prodotto, presentato a
Gastromasa: il
mocambo (frutto della
Theobroma bicolor), chiamato
pataste in America Centrale (dall'originario nome maya "
pataxte").

Semi di mocambo in degustazione a Gastromasa 2017
La
Theobroma bicolor è una pianta del genere
Theobroma, cui appartiene anche quella del cacao. «Il suo frutto non è molto conosciuto, noi lo consideriamo un po’ il “fratello dimenticato” della noce di cocco», ha spiegato lo chef. In effetti la somiglianza tra i due è grande: grandezza simile, il guscio esterno è da verde a marroncino a seconda del grado di maturazione, legnoso (ma con grosse venature che lo distinguono dal cocco), va quindi segato per accedere all’interno, che nasconde una polpa compatta a sua volta capace di celare quattro semi, edibili sia freschi che tostati, «oppure fritti da accompagnare con le uova», in piatti semplici, «fa parte della cultura alimentare tradizionale dei nativi, è sempre stato un simbolo di povertà», anche se definito “
frutos de dios”. Ora però si sta riscattando, è sempre più ricercato, è riuscito a mettersi in scia al boom del cacao. Così
Tsumura fa rete con i piccoli produttori che ostinatamente hanno continuato a coltivarlo e che, a loro volta, hanno chiesto a grandi chef come lui di valorizzarlo in cucina.
L’utilizzo possibile è molteplice.
Tsumura racconta come la polpa zuccherina, privata dei semi, possa essere bollita per ricavarne marmellate o succhi, per fare sorbetti e gelati. I semi, come detto, possono essere mangiati freschi, oppure tostati e salati (il gusto è a metà tra un anacardo e una noce). O ancora: si fanno bollire, si schiacciano, si stendono in un strato sottile, si disidratano e si friggono, in modo da ottenerne croccanti chips. Vi si ricava anche una crema (lo chef la definisce «una specie di hummus» in onore dei turchi ospitanti) con cipolla e salsa di soia, con la quale condire il ceviche. E ancora, una farina, per panificare. Persino la membrana che si trova tra guscio e polpa si può utilizzare, magari aromatizzata con zest di limone, in pasticceria. «Siamo a buon punto anche nella produzione sperimentale di un olio», dice lo chef nikkei: i semi del mocambo contengono un buon 50% di grasso.
Conclusione felice: «Quello che era il cibo della miseria per eccellenza si sta dimostrando davvero versatile e interessante. Oggi la moderna gastronomia gli offre una grande possibilità di sviluppo». E la offre anche anche ai contadini amazzonici, ne hanno bisogno.