Ci sono parole che si pronunciano per abitudine, e parole che si abitano. Al Mugaritz chiamano parole abitate quelle che non sono slogan, ma corpo vivo: termini che coincidono con ciò che si pensa, si fa e si rischia. È una definizione nata nel dialogo con Jardin de Junio, un istituto di ricerca in neuroscienze cognitive che studia il modo in cui formuliamo senso e verità nel linguaggio. Non è un dettaglio semantico, è un posizionamento etico. In cucina, soprattutto oggi, mentre termini come sostenibile, naturale, territoriale vengono usati come vernice di comodo, parlare con parole abitate significa legare il discorso alla pratica, il racconto all'impatto reale.
Questo è, in modo quasi ostinato, il caso di
Boragó. Il ristorante aperto da
Rodolfo Guzmán a Santiago nel 2006 non è nato per
rappresentare il Cile, ma per interrogare il Cile: come funziona davvero il suo territorio alimentare, quali ingredienti lo attraversano e quali saperi lo custodiscono.
Guzmán ha costruito un laboratorio culinario che oggi è riconosciuto tra le esperienze gastronomiche più influenti al mondo, ma l'elemento più radicale del progetto non è il risultato sul piatto. È l'ecosistema che gli sta intorno.
Fin dall'inizio
Boragó si è posto una domanda scomoda: è possibile creare alta cucina partendo quasi esclusivamente da biodiversità endemica cilena, dalla raccolta spontanea e da microcicli stagionali a disponibilità limitata, invece che da filiere codificate e da materie prime standardizzate? La risposta pratica è stata un'intera infrastruttura. In assenza di modelli preesistenti,
Guzmán ha dovuto letteralmente costruire la filiera che gli serviva: una rete di raccoglitori, pescatori, raccoglitrici Mapuche, comunità rurali, piccoli produttori delle aree più remote del Paese – dall'Atacama alla Patagonia, passando per l'Araucanía e le isole meridionali – con cui instaurare relazioni stabili di fiducia, scambio di conoscenza e corresponsabilità.
Questo lavoro, più che gastronomico in senso classico, è stato lavoro di campo.
Boragó ha operato come una piattaforma di ricerca applicata: catalogazione botanica e marina, studio delle stagioni iper-locali, recupero di specie dimenticate o mai entrate nella cultura urbana, analisi delle tecniche tradizionali di trasformazione e conservazione, valutazione sensoriale e nutrizionale degli elementi raccolti, studio della loro stabilità, trasportabilità e comportamento in cottura. Perché se il ristorante sceglie di servire alghe fresche raccolte nelle scogliere australi, radici selvatiche di precordigliera o frutti effimeri di cactus parassitati da un
quintral che dura tre settimane l'anno, deve anche risolvere problemi tecnici di logistica, conservazione e sicurezza alimentare che nessuno, prima, si era posto in quei termini.
Questa dimensione
di laboratorio territoriale è, paradossalmente, ciò che distingue
Boragó ben oltre lo storytelling identitario. La cucina di
Guzmán non mette in scena il Cile come immagine folclorica da esportazione; lavora il Cile come struttura vivente. Significa chiedere: che implicazioni ha un Paese che si estende per migliaia di chilometri in latitudine, attraversando deserto iperarido, valli temperate, fiordi subpolari e oceano gelido? Che significa cuocere in un luogo dove la neve dell'Araucanía e l'acqua freddissima della Corrente di Humboldt incidono direttamente su sapidità, tessiture proteiche, densità di collagene, contenuto minerale dei prodotti marini? Cosa vuol dire pensare la stagionalità in un contesto dove "primavera" non è una sola, ma dieci primavere diverse a seconda della quota, dell'esposizione, della salinità del suolo, della distanza dal ghiacciaio più vicino?

Anatra frollata due settimane e autunno cileno
Il risultato è una cucina che opera come una mappa dinamica del Paese. Nel deserto di Atacama – un ambiente estremo, con umidità praticamente nulla e sbalzi termici verticali tra giorno e notte –
Guzmán e il suo team hanno studiato piante che sopravvivono per adattamento e concentrazione, come la
rica rica o la
muña muña, usate da secoli dalle comunità atacameñe non solo come alimento ma come presidio fitoterapico. L'osservazione, in questo caso, non è puramente antropologica: è tecnico-sensoriale. La domanda diventa: cosa succede se trattiamo queste piante con processi raffinati di stabilizzazione aromatica, ispirati per esempio al vapore e all'asciugatura controllata del tè verde giapponese, per bloccarne le note più amare e amplificare i composti volatili più floreali? È possibile traslare una logica di estrazione gentile, tipica di un laboratorio, in cucina d'autore senza perdere l'identità originaria dell'ingrediente? La risposta è nei piatti, ma prima ancora nei protocolli interni che
Boragó ha dovuto scrivere da zero.

Una brezza mattutina in campagna - Tarte tatin di cipolla e pomodoro rosa, insalata estiva e crema fredda di mandorle
Più a sud, l'Araucanía – cuore storico del mondo Mapuche – ha rappresentato per
Boragó un'altra linea di frattura e di ricomposizione. Qui le araucarie (che per i Mapuche sono albero della vita, e non mera specie vegetale) producono il
pewén, un seme nutrizionalmente denso e culturalmente sacro, che ha sostenuto comunità per millenni. Qui crescono funghi come il
loyo, dalle strutture carnose giallo brillante, e radici e frutti che non sono solo ingredienti ma memoria alimentare collettiva. Parlare con la comunità, ascoltare, raccogliere, testare, misurare consistenze e trasformazioni termiche di questi elementi significa per il ristorante fare, in pratica, conservazione di patrimonio bioculturale. È ricerca etnobotanica che diventa struttura di menu.

Una brezza mattutina in campagna - Papavero, pebre di pomodoro rosa e le ultime ciliegie dell'estate
Questa integrazione tra saperi ancestrali e metodologia contemporanea è cruciale per capire il valore scientifico del progetto.
Boragó non feticizza la
tradizione come un oggetto da museo; la tratta come un corpo di conoscenza tecnica. Le tecniche di fermentazione di pesci piccoli e poveri — acciughe cilene, sardine locali storicamente relegate a farina di pesce per mangimi — vengono rilette alla luce del garum mediterraneo e testate con rigore microbiologico per ottenere estrazioni proteiche e lipidiche ad altissima concentrazione aromatica. Le pratiche di cottura lenta al palo degli agnelli rurali diventano un'analisi sulle trasformazioni lente di collagene e grassi in condizioni di calore controllato. Le alghe come il
kolof (
cochayuyo), spesso demonizzate dalle generazioni urbane perché considerate
cibo povero, vengono riprocessate per comprendere — e dimostrare — la loro enorme versatilità tecnica e nutrizionale, anziché limitarle a stereotipi culturali.

Offerte costiere e agnello della Patagonia "A la Inverse"
È qui che la cucina di
Guzmán si sposta dall'essere
solo una cucina territoriale a essere una piattaforma di ricerca gastronomica con implicazioni ambientali e sociali. Perché se un ingrediente considerato marginale diventa sistematico, documentato, valorizzato, remunerato e quindi richiesto, si genera economia locale attorno a quel sapere e si legittima l'esistenza di chi lo custodisce. Il ristorante, in altre parole, non acquista solo materia prima: finanzia la continuità di sistemi di raccolta, trasmissione orale, gestione comunitaria delle risorse. E nel farlo riconfigura il concetto stesso di lusso. Il lusso non è più l'ostrica importata o il crostaceo esotico, ma la possibilità di accedere in modo rispettoso e tracciabile a un frutto che esiste due settimane l'anno sulle pendici di una montagna sopra Santiago, o al
quintral parassita di un cactus di precordigliera, da consumare entro quattro giorni dalla raccolta prima che perda la sua identità aromatica.

Pomodoro rosa del Maule, Picha Picha e anguria di Paine
Tutto questo, naturalmente, non è avvenuto senza attrito. I primi anni di
Boragó sono stati segnati da incomprensione, ostilità della critica locale, isolamento economico quasi totale. La ristorazione cilena
di prestigio, nei primi Duemila, validava cucine che replicavano modelli europei o asiatici di importazione. L'idea che un ristorante fine dining potesse servire piante spontanee Mapuche, alghe affumicate secondo pratiche costiere indigene o molluschi carnosi come il
loco trattati senza filtri estetizzanti veniva derisa come provinciale, primitiva, folkloristica. Questa resistenza culturale interna è uno dei dati più importanti per comprendere il peso del lavoro di
Guzmán: la sua ricerca non si svolgeva in un territorio che bramava il racconto identitario; si svolgeva in un territorio che, in larga parte, rifiutava la propria immagine.

Verdure selvatiche di pre-primavera
Ed è qui che
Boragó ha avuto un ruolo quasi politico (nel senso profondo, non istituzionale): spostare il baricentro del riconoscimento. Mostrare che la cucina cilena non è una cucina
minore da giustificare con umiltà, ma un campo di studio ad altissima complessità ambientale, antropologica e tecnica, degno di essere messo al centro del discorso globale sulla ristorazione contemporanea. È grazie a questa tensione costante — tra raccolta sul campo e formulazione gastronomica, tra saperi originari e processi di laboratorio, tra osservazione biologica e messa in tavola sensoriale — che
Boragó oggi viene percepito come uno dei poli mondiali della ricerca culinaria.

Crudo di capasanta di Tongoy
Importa sottolineare che questa traiettoria non è individuale.
Guzmán è spesso raccontato come figura carismatica, inquieta, incapace di stare ferma, più esploratore che manager. Questa narrativa biografica ha una parte di verità: la sua urgenza è reale, la sua energia è chiaramente motrice. Ma sarebbe riduttivo fermarsi lì.
Boragó è un progetto collettivo. È l'esito di un sistema che mette insieme raccoglitori di funghi che conoscono con precisione millimetrica la variazione di texture del
loyo a seconda delle piogge di pre-autunno; donne Mapuche che proteggono e trasmettono pratiche alimentari legate al
pewén e alla
luche; pescatori che leggono l'acqua come una griglia di salinità e correnti; microcomunità dell'Atacama che custodiscono la memoria d'uso di arbusti salini come il
cachiyuyo e ne controllano le fasi di fermentazione spontanea anche fuori dal loro habitat originario; tecnici di cucina che trasformano tutto questo in protocollo replicabile e servizio.
In altre parole: un ristorante diventa piattaforma culturale quando smette di essere solo punto di arrivo del prodotto e diventa parte attiva della sua biografia. Questo spiega perché il trasferimento fisico di
Boragó fuori dal centro di Santiago verso un'area ai piedi delle Ande non sia stato presentato come un semplice cambio di indirizzo, ma come un'evoluzione strutturale del progetto. È un modo per avvicinare ancora di più cucina e territorio, per operare in prossimità delle aree di raccolta, per continuare a rompere la distanza fra ricerca e servizio. È anche un gesto dichiarato di uscita dall'isolamento simbolico dell'alta cucina e di riapertura alla dimensione comunitaria e agricola: un ritorno alla
Minga, la tradizione collettiva delle comunità cilene e chilote di spostare insieme case, lavoro e sapere.

I mari dell'Isola di Pasqua
Oggi, parlare di
Boragó significa parlare di una cucina che usa la degustazione come strumento di consapevolezza. Il commensale non è invitato soltanto ad
assaggiare il Cile, formula ormai insufficiente. È invitato a misurare cosa significhi mangiare in modo situato: mangiare sapendo che ogni elemento sul piatto — un riccio di mare dai toni floreali e grassi che ricordano un
foie gras marino, una radice di
puya addomesticata dopo secoli di vita selvatica, una
murtilla bianca raccolta pochi giorni prima da una comunità della Patagonia settentrionale, una fermentazione di pesce povero trasformata in struttura aromatica primaria — è il risultato di un processo che tiene insieme biologia, geografia, storia politica e lavoro umano.
In definitiva, la lezione più potente che arriva da
Boragó e dal percorso di
Rodolfo Guzmán è che la cucina d'autore può funzionare come disciplina di ricerca applicata, non come esercizio autoreferenziale. Può produrre conoscenza nuova sul territorio in cui opera, e può restituirla alla comunità che quel territorio lo abita. Se accettiamo questa prospettiva, allora sì: parole come identità, territorio, sostenibilità tornano a pesare. Tornano a essere parole abitate.