Ogni cuoco è attratto da un territorio fisico o creativo, uno spazio materiale o ideologico, senza il quale la cucina altro non sarebbe che un atto vuoto, un esercizio da ripetere in sequenza.
Quel riferimento, invece, è la strada che lentamente conduce a una profondità, in grado di adattarsi a ogni singola identità, a prendere forma nell’investigazione di tecniche, ingredienti e possibilità, e così portare allo sviluppo di un gusto complessivo, che il cuoco riconosce come proprio e di nessun altro.
Stefano De Gregorio, classe 1975, nato a Busto da origini molisane, nonchè chef del ristorante DEG a Busto Arsizio (Varese), ha scelto così di viaggiare oltre i confini della cittadina del varesotto.
Supera il riferimento geografico rispetto a dove è collocato e si abbandona all’altrove, lasciandosi cullare da un vasto Mediterraneo che ha appena iniziato ad esplorare.
Oltrepassa le nostre coste, quelle possibilità di espressione già consolidate sui nostri palati superando, quindi, quell'accezione perlopiù meridionale di Mediterraneo, presente solo in piccole dosi, per creare una sequenza di “atterraggi morbidi” intenti a bilanciare il percorso.

Lo chef Stefano De Gregorio
Preferisce l’esplorazione di coste e Paesi lontani, di intensità aromatiche che non ci appartengono e che spesso evitiamo categoricamente. Le spezie, infatti, abbondano nella cucina di Stefano, un filo conduttore che si rivela di portata in portata senza mai sovrastare un piatto, restituendo all’ospite un ricordo singolare dell’ingrediente a cui si combinano, e proprio in questa maniera, l’assaggio spinge sempre un po’ più in là rispetto alla nostra aspettativa.
Un uso per niente casuale, e tantomeno fine a sé stesso, perché la scelta di investigare questo gran bazar di profumi, trova la sua applicazione nella limitazione assoluta del sale in cucina. Irrilevante, come lo è stato per secoli, quando il suo costo ne impediva l'impiego, e dunque, interrogando l’esigenza del piatto, si introducono trame aromatiche che estraggono la naturale sapidità dell’ingrediente, stimolando dei piacevoli intrecci gustativi originari da ogni dove.

Agnello e il Mediterraneo in preparazione
Agnello cotto nel fieno, facussa, albicocca fermentata, hummus di ceci e pane Bazlama.
Un piatto complesso, che meglio delinea l'abbraccio del bacino mediterraneo e dei suoi popoli, dei suoi sapori: partiamo da una carne con la quale Stefano cresce, da molisana quale è la sua famiglia. Il nonno lo cuoceva nel fieno, vale a dire nell'alimento prediletto dall'agnello stesso, preferibilmente alla brace. Viene condito con albicocca fermentata fatta in casa (Turchia) con origano e zahatar, maionese al peperoncino di Aleppo (Siria), coriandolo, facussa fermentata (Marocco). L'agnello viene poi irrorato con del fondo bruno speziato e un olio aromatizzato all'alloro, e servito con hummus di ceci e pane Bazlama (ancora una volta Turchia), morbidissimo, appena lievitato
L’ingrediente, così, si staglia sul palato, che vive di duplici oscillazioni: in un percorso degustazione l’intenzione è, infatti, quella di alternare piatti più cerebrali, dove non è immediato carpire la direzione del gusto, ma va compiuto prima un giro completo, attendendo pazientemente che la traiettoria diventi via via più nitida. E quando ciò accade, è forte il senso di sorpresa, soprattutto perché la mente viene invitata, impegnata a decodificare le impressioni che riceve, mentre il piacere pervade i sensi.
Questi momenti sono poi compensati da espressioni più accomodanti, ed è in questo delicato equilibrio, in questo profondo rispetto verso chi si accosta a tali sapori per la prima volta che Stefano sta muovendo una rivoluzione silenziosa, portata avanti assieme ad altri professionisti di Busto e dintorni, risvegliando l’interesse gastronomico locale.
È preziosa la rete; è tanta l’ammirazione per colleghi e amici, come lo chef Luigi Pomata, «che sento praticamente quasi sempre a fine servizio», o Marco Ambrosino, il primo ad aver stimolato quell’ampiezza di vedute su un Mediterraneo esteso, sulla contaminazione quale elemento di arricchimento, su una sensibilità materica che invita a sentire il piatto a mente libera.
Ma anche carezze, piatti che regalano immediato conforto e che hanno bisogno di essere accettati così come sogno, imprimendo nella loro struttura un senso di accoglienza che dalla sala del DEG si trasferisce sul palato.
Una cucina di chi vive ogni servizio con devozione per questo lavoro, e ogni piatto come una missione, un messaggio da sussurrare all’ospite, curato con delicatezza, pensato con scrupolosità, appassionandosi di quei sapori che stanno per nascere sul palato altrui; un orgoglio per il proprio operato che non è presunzione, ma felicità, visione.
Il nostro consiglio: aggiudicatevi il tavolo che dà sul pass. Tutto vi sarà più chiaro seguendo con i vostri stessi occhi la passione che muove questo cuoco.
Gli assaggi nella nostra fotogallery

Tagliatella di seppia, bufala, limone, capperi e scichimi
Una linguina al burro e limone: è questa l'impressione gustativa che riceviamo socchiudendo gli occhi; è al dente, ma non è pasta, bensì una seppia, tenace in masticazione; viene condita con crema di bufala, spumosa, e limone; una polvere di capperi che si lega al scichimi, miscela di spezie giapponese composta da almeno sette ingredienti

Pomodoro alla brace, meze di mandorla, colatura di tartufo nero e salsa tabarkina
Umami. È la brace, è la leggera fermetazione della mandorla nel meze, è il gusto concentrato della salsa tabarkina (con aceto, peperoncino, pomodoro, capperi e olio), un condimento tipico sardo utilizzato anche in Liguria per condire soprattutto pesce, ma anche verdure; alla base, invece, c'è un brodo di alghe e agrumi che imprimono una freschezza citrica che riporta ordine sul palato

Come una scarola ripassata
Scarola alla brace, alici di Cetara, capperi, colatura di limone, mandorle tostate
Un amore profondo quello di Stefano per questo piatto campano, la scarola ripassata in padella, che lo chef, invece, cuoce interamente alla brace; la condisce con gli stessi ingredienti della ricetta classica, quindi, polvere di cappero, polvere di oliva e polvere di noccioli di oliva; all'interno della scarola, alici di Cetara carnose, e poi le salse di uvetta, limone e aglio nero. Chiude il piatto una colatura vegetale - e non di alici - che si ottiene da verdure messe sotto sale

Zuppa di cozze, pomodoro estivo, cocco, facussa e ravanelli
Un piatto davvero complesso, in questo caso meno immediato, ma che ci aiuta a immaginare la cozza in maniera completamente diversa rispetto alla sua preparazione canonica. È una cozza sarda che viene lasciata schiudere e poi passata per pochi minuti alla brace, giusto il tempo di raccogliere nella sua polpa un fumo docile – non di più. Alla base c’è della facussa fermentata – una varietà di melone, molto simile a un cetriolo – e del pomodoro, il ricordo di una conserva estiva, del frutto al naturale, scaldato dal sole, e che quindi trattiene un sapore acidulo, mentre di dissolve la dolcezza; non viene aggiunto sale, ma solo del coriandolo, peschiole - dai tratti acerbi -, caviale, ravanelli e cocco secco, che non rilascia quella parte tostata quasi di frutta secca, ma che vira, invece, verso un’acidità quasi balsamica, resinosa. Il mare inizia a silenziarsi e vengono evocati sentori più terrosi

Spaghettino tiepido, fragole, 'nduja, aglio orsino e capperi
Le fragole vengono estratte a caldo e persiste così la loro dolcezza, ma anche un'acidità leggera che a tratti ricorda quella del pomodoro. È l'aglio orsino, sia in olio, sia fermentato, ad apportare un timbro umami, supportato dalla 'nduja - ancora in olio - che avremmo desiderato sentire con più forza. Tutto questo condisce uno spaghettino sottile sottile, quasi impercettibile sul palato; complice la temperatura, il gusto di questo piatto si concentra ulteriormente