Matteo Baronetto

Foto Brambilla-Serrani

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Del Cambio

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Torino
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Festina lente: affrettati piano. Contemplando l’orologeria creativa del ristorante Cracco, sancta sanctorum dell’avanguardia italiana, non sfuggono la pinna del delfino e la massiccia catena dell’ancora. I due simboli, secondo una tradizione antica, della condotta del saggio. E se lo chef vicentino è maestro nell’ammarraggio alla concretezza e all’equilibrio, meditativo quanto neoclassico, l’altra metà del piatto ha l’irruenza e il bios di Matteo Baronetto. Fra i migliori chef italiani. Un campo di forze magnetico che polarizza le sensazioni al palato.

Classe 1977, figlio di operai Fiat a Torino, Matteo non è chef per vocazione né per eredità: la cucina è prima di tutto il suo predellino per montare in sella all’agognato motorino, d’estate e il fine settimana in pizzeria. Abbandonati gli studi di ragioneria intrapresi per volere paterno, quelle ruote lo conducono dritto dritto all’Alberghiero di Pinerolo e alla Betulla di San Bernardino. Il deus ex machina porta il nome del professore di tecnica Pautassi, che lo mette in contatto con il sommelier di Marchesi a Erbusco.

L’incontro con lo chef Carlo Cracco non è un colpo di fulmine, ma quando questi decide di intraprendere l’avventura delle Clivie a Piobesi d’Alba, è a lui e Luca Cairati, suo primo sous-chef, che chiede di seguirlo. Finché dopo 3 anni restano soli con due giapponesi: «In quel periodo si cominciava a parlare di avanguardia. Molte idee sono nate lì». Ad esempio la pasta di pesce, mouillette per l’uovo alla coque latrice di sviluppo visionari.

Nel 2001 è la volta di Cracco-Peck: una cucina ambiziosa, con ben altra potenza di fuoco in termini di attrezzature e di brigata. Il palcoscenico per piatti che hanno fatto la storia, segnati dalla firma del suo sciamanesimo: il midollo con fave e cioccolato, la pasta di tuorlo marinato, il quaderno di mare. Senza dimenticare il capitolo pasta, riaperto bruscamente nel 2005, in seguito a provvidenziali eventi commerciali: se è vero che la novità è oblio, l’abbandono ha preparato il terreno al fiorire della creatività come il migliore maggese. Dagli spaghetti con ricci e caffè alle sperimentazioni attuali con la mastica, resina del lentischio dal potente afrore balsamico. Mentre il mansionario col divorzio dagli Stoppani si allarga alle forniture.

Rispolverando Calvino alla voce esattezza, dietro il cristallo di Cracco c’è la sua fiamma: indomita, intimamente cangiante, incandescente. Dove riluce anche il magistero di Scabin, maestro ideale di un pensiero che sa trasformarsi in azione, per poi assumere le movenze del linguaggio. Matteo assomma loro la pittura, che con esiti felici lo aiuta a fissare nella memoria l’ideazione dei piatti in chiave autobiografica. Un gesto più libero di esprimersi che mai, dall'aprile del 2014, il momento della grande emancipazione al Cambio di Torino. Una mossa che gli frutta subito una stella Michelin e il titolo di "Miglior cuoco d'Italia" per la Guida di Identità Golose.

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Ha partecipato a

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a cura di

Alessandra Meldolesi

Umbra di Perugia con residenza a Bologna, è giornalista e scrittrice di cucina. Tra i numeri volumi tradotti e curati, spicca "6, autoritratto della Cucina Italiana d’Avanguardia" per Cucina & Vini