Roberto Di Pinto, chef del ristorante Sine by Di Pinto, cavalca l’onda di un successo che ha saputo costruire nel tempo, complice la stella Michelin, ma anche l’efficacia della sua comunicazione social, dove racconta da sempre non solo piatti, ma anche dinamiche di servizio, momenti di condivisione con la squadra, come la preparazione di uno staff meal.
Siamo in Viale Umbria a Milano, una delle arterie principali della città. È un venerdì sera d’autunno e il ristorante è pieno. Diversi tavoli da 4, altri da 2, e uno chef’s table miracolosamente libero perché qui, di solito, la lista d’attesa arriva fino a tre mesi. Prossime disponibilità febbraio 2026.
Un ambiente rilassante e minimalista se non fosse per discrete interruzioni di napoletanità - le ceramiche -, e poi le opere dello chef appese alle pareti, volumi di cucina francese sugli scaffali e tanto colore: è la dimensione nella quale l’ospite è accolto. In cucina, seguiamo i movimenti da un palco privilegiato - lo chef’s table appunto -: si muove una brigata armoniosa, concentrata, serena nonostante gli ordini si susseguano a ritmo sostenuto, che Roberto scandisce. I piatti escono, fuori la gente chiacchiera, sorride e di tanto in tanto, sul finire del pasto, entra in cucina estasiata dagli attimi appena vissuti.
Ma cosa rende questa insegna così attraente?
In sintesi, una cucina volutamente golosa.
No, non è un crimine pensare a un piatto che crei immediata connessione con il palato dell’ospite, che amplifichi la curva di piacere recepito, pur concentrando al suo interno una stratificazione di passaggi e una tecnica tale da renderlo a tutti gli effetti complesso.

Ceviche di ricciola con leche de tigre al fico d'India
La Cotoletta del figlio ultimo, per esempio, viene fritta e poi passata alla brace, servita con tre maionesi diverse di cui una totalmente vegetale, panata con il carbone nero a ricordare quell’ultima fettina fritta in famiglia che spettava proprio a Roberto, sul finire di una lunga serie, partendo da "esemplari" dorati destinati al babbo e ai suoi fratelli, fino a toni sempre più bruni, sfiorando il bruciato. Un concetto che qui viene tradotto in un croccante sonoro, piacevolissimo; la panatura è integra, aderisce al vitello, che resta succoso. Ma tecnica è anche una demi-glace setosa e lucente, che riveste il Pollo di Bresse farcito con golosa salsiccia e friarielli. Da tagli più pregiati, al quinto quarto: un diaframma - in carta fino a qualche settimana fa -, che Roberto ingentilisce, educando l’ospite a oltrepassare il confine della sicurezza, portandolo per mano e aggiungendo sempre una generosa dose di conforto che edulcori l’idea di partenza del cuoco – servire frattaglie - senza snaturarne il pensiero. Dopotutto, anche questa è accoglienza.

Ritorno a casa, ovvero quello che resta di uno stage al Nahm di Bangkok, regno dello chef David Thompson, tra i primi cuochi di cucina Thai a conquistare una stella Michelin. Una base di aglio e olio, sul cui fondo però muovono gli umori di un Pad thai, esplosione di zenzero, lemon grass, aglio, gambi di coriandolo e peperoncino. In chiusura si aggiungono ricci, germogli di coriandolo e buccia di lime
Stabilito quel grado di fiducia, subentra la possibilità di spingersi un po’ oltre, posponendo persino la comparsa della pasta in menu, che arriva solo alla fine della degustazione. È questo il momento dello spaghettone, il Ritorno a casa: cottura più decisa di un al dente, ricci di mare che si schiudono a un mondo molto più lontano, con un (sotto)fondo di pad thai e l’equilibrio sottile di coriandolo, peperoncino, zenzero che non annullano la potenza salina del riccio, ma la richiamano per ammorbidire le vibrazioni asiatiche.
Si alternano sul palato Capasanta e cardoncelli, tanto da confonderne la consistenza, carnosa in entrambi e i casi, avvolti da uno zabaione d’ostrica dal taglio acidulo e salino che ne tesse la trama.
C’è meraviglia, incanto, davanti a un sorso di mare di un’ "ingannevole" Ostrica Pisco Sour, perché del mollusco, in realtà, traccia non ce n’è: ci sono invece piante grasse, in grado di assorbire sapori altri, nel nostro caso l’acqua di mare, la salicornia e la foglia d’ostrica, poi l’aloe vera per richiamare la consistenza un po’ viscida dell’ostrica stessa e in cima foglia ostrica e pink blossom. Freschezza, salsedine. Ostrica, a tutti gli effetti, condita da sottili note citriche.
Un passaggio, quest’ultimo, che è parte del Napovegano, l’ultima creazione di casa Di Pinto, un menu interamente basato su portate prive di proteine animali, a cui si somma Sine Confini, visioni a mano libera, e il Sine Tempore, una raccolta di classici, tra cui la Parmigiana Espressionista fuori stagione: al cuore del piatto, infatti, ci sono le melanzane più buone, quelle d’estate, che però vengono conservate in salamoia così da mantenere gusto e consistenza al picco di maturazione, un progetto portato avanti con l’azienda Vestalia assieme all’università di Napoli. È golosa questa parmigiana nella quale si concentrano l’umami del Parmigiano, la ricchezza complessa del miso di pomodoro “irrobustito” da semi di sesamo, eppure protagonista è la sua parte meno nobile, la buccia, un velo nero, amaro, squarciato a tavola come una tela di Fontana.

Capitone, foie gras e mela verde
È in questi elementi, in queste trame narrative che il gusto si sedimenta; tutti assaggi che partono da una tradizione solida, venerata da Di Pinto che, però si apre al mondo e lascia che il mondo entri persino in un Capitone, classico del Natale partenopeo, in versione kabayaki realizzato con soli ingredienti italiani, quindi saba e non mirin, colatura di alici e non soia, servito con aria di mandorla – eco degli studi molecolari spagnoli – e sorbetto alla mela verde e cetriolo; alla base, inaspettatamente, una scaloppa di foie gras, che crea una sovrapposizione di grassi importanti, compensati da una continua freschezza pulente sul palato.
Goloso, quindi, non vuol dire semplice, bensì trovare la maniera più efficace di comunicare la propria identità, senza mai perdere di vista a chi la si sta comunicando e quale impressione ultima si intende lasciare all’ospite: un palato rasserenato, soddisfatto, gioioso. Sentirsi accolti e non respinti.

Il pane "cafone" (...mica tanto poi) dalla ricca selezione del Sine
Una menzione speciale alla panificazione, e anche alla cantina curata dal sommelier Andrea Gaito, che prolunga il viaggio con assaggi tra Francia e Slovenia, alternando Sauternes a macerati potenti, tagli bordolesi a sorsi più spigolosi.