Come una frase detta sottovoce che però resta impressa, a volte capita che un piatto, o uno stile di cucina, continui a risuonare nella testa anche a distanza di giorni. Non tanto per nostalgia, quanto per la precisione con cui riesce a raccontare qualcosa che si capisce istintivamente prima con il gusto e poi con la mente... Siamo a Dolcedo, provincia di Imperia e la fonte di questa intensità è la casa di Jacopo Chieppa, il mulino di Dolcedo: il ristorante Equilibrio.
Il mulino, originario del 1904, dopo aver macinato tonnellate di cereali, legumi e castagne, dopo aver spremuto millemila “misure” di olive, al momento dell’ingresso di Jacopo e Melania – compagna nella vita e nel progetto – era inattivo da molto tempo. Ma non appena l’acqua ha ripreso a bagnare la ruota, come un vecchio nonno brontolone, si è svegliato e ha ripreso a girare. Quasi non si fosse mai fermato. Quale miglior augurio per un nuovo inizio? È insomma un luogo autentico, immerso nella quiete e inzuppato nella personalità di chi lo abita, in cui ogni scelta sembra voler evitare l’eccesso, cercando invece una misura che sia sempre al servizio dell’esperienza; questo spazio non è stato concepito per stupire a ogni costo, ma per accogliere con autenticità.

Lo chef-patron Jacopo Chieppa tra i suoi due sous Francesco Aricò e Daniel Bonanato
Chieppa è uno di quei cuochi arrivati in cucina per attrazione naturale, quasi inevitabile. La responsabile del “fattaccio” è stata Londra che, con le sue vibrazioni e contraddizioni, ha fatto scoccare la scintilla definitiva, quella che ancora oggi brucia forte. Dopo un periodo nella capitale inglese, lo chef ha affilato la tecnica della panificazione al fianco di
Mauro Colagreco, nel cuore pulsante del
Mirazur. Un’esperienza formativa e folgorante, tanto da spingerlo, poco dopo, a lasciare la Francia per tornare in Liguria e aprire una pizzeria:
Kilo, a Imperia.
Dopo qualche anno di Kilo, che continua a entusiasmare i pizzalovers per l’alta qualità dei suoi prodotti, Jacopo si è dedicato alla cucina d'autore. Così è nato EQ, o meglio: Equilibrio; un nome che rivela un’intenzione. Chieppa è un cuoco con un ego solido — non ingombrante, ma ben presente — che si riflette nei piatti più audaci, mai banali e sempre riconoscibili. Il suo stile non limita, ma spinge, serve da combustibile creativo per le idee che hanno bisogno di spazio, ma anche di rigore; equilibrio, appunto.
Il ristorante non è solo la somma di una sala elegante, ma sobria, e di una cucina ambiziosa. È un’idea chiara, declinata con coerenza e calore. In sala,
Melania gestisce l’ospitalità con misura e sensibilità: mai sopra le righe e mai distante. La sua presenza, come quella del team, è costante, fluida, attenta, capace di generare quella confidenza garbata che fa sentire a proprio agio. La carta dei vini è ampia, ragionata, e offre una visione trasversale dell’Italia e del mondo, tra bianchi, rossi e le bollicine. Tutto trova spazio, con un focus particolare sulla fascia sotto i 150 euro, piuttosto che su quella più alta. Una scelta che sembra ponderata, e che favorisce una relazione di vicinanza tra chi siede al tavolo e i vini in attesa del cavatappi.
Poi arriva la cucina, ed è qui che l’equilibrio si fa progetto. Le esecuzioni sono impeccabili, frutto di una tecnica solida che però non ha nulla di rigido, perché è sempre al servizio di un'idea. E da queste parti, le idee non mancano; ce ne sono molte, e quasi tutte buone. La cucina di EQ non soddisfa solo l’appetito di cibo, o il bisogno calorico, ma diventa occasione per ragionare; si mangia e si pensa, senza fatica, senza forzature, senza doversi "spaccare il cervello": ed è proprio questo a far tornare le persone, questo sentirsi parte di qualcosa che non impone, ma coinvolge. Come scriveva Virginia Woolf: «Non si può pensare bene, amare bene, dormire bene, se non si ha mangiato bene.»…
Il
Minestrone su tela è
Jacopo. Un piatto che non solo gli appartiene, ma che lo rappresenta e lo descrive. È dedicato alla figlia, che ama disegnare e adora la minestra del papà. È innovativo, pericoloso, divertente. Mescola affetto, arte, orgoglio e anche un pizzico di sfida. Servire un quadro orizzontale, su cui c’è del cibo, è come suonare un gong e svegliare chi mangia. L’ospite guarda, esita, assaggia, si compiace. In quel momento pensa, sorride e si interroga. È un gesto forte, ma non arrogante. È uno di quei piatti che oggi si vedono alla
Francescana o che portano l’autografo di
Davide Scabin. Qui, invece, lo firma
Jacopo. E va benissimo così.
L’Aragostella è un piatto che si incolla al cervello. Semplice in apparenza, raffinato nella sostanza: è una di quelle idee che sembrano venire dal nulla, e invece nascondono profondità: con il lemon caviar il piatto si trasforma in un razzo. Qui si vede il valore di chi pensa, e poi esegue, di chi ha capito che la leggerezza, se ben governata, può diventare la più nobile delle complessità.

Aragostella, sedano rapa e lemon caviar
C’era da aspettarselo, infatti il servizio del pane è da applausi e ha proprio dignità di portata nel menu:
Focaccia del contadino. Non solo pani diversi per consistenze, lievitazioni, intensità, carattere, ma una piccola finestra sull’amore primigenio dello chef.
Sui secondi c’è un leggero rallentamento, un cambio di passo. Il daino e L’altra parte di me - Pescato — serviti con tre elementi ben separati — funzionano al gusto, ma restano in attesa di uno slancio in più. La sensazione è quella di un aliante che sta cercando la portanza. Non è facile buttarsi, serve coraggio, ma una volta spiccato il volo, il cielo è ampio. Non si tratta di un se, ma di un quando, perché Jacopo ha tutti i numeri per osare. Quando lo farà, anche i secondi troveranno la loro voce definitiva. I presupposti ci sono.

Ravioli ai tre pesci (in doppia versione, al tovagliolo e conditi)
Il dessert
Pesto, invece, è una trovata adorabile. È una "paraculata" ligure da applausi, nel senso migliore del termine. Si parla di territorio, ma con tecnica. Si usano sapori freschi, ma si richiede attenzione e concentrazione: cremoso al basilico, pralinato ai pinoli, dolcezza misurata. Anche qui non si mangia con leggerezza distratta. Si partecipa. Si conclude il pasto, ma si rimane lì.
E la chiusura è davvero leggera. Digeribilità totale, nessuna sensazione di pesantezza. Zero pennellate di burro alla francese, ma un equilibrio che funziona perché tiene insieme passato, presente e visione. Nel campionato che Equilibrio ha scelto di giocare, contano tre cose: identità, e Chieppa ne ha da vendere; poi squadra, perché senza una squadra non si va da nessuna parte, e qui il gruppo è affiatato, vivo, concreto (Melania, quando parla dello chef, ha occhi che brillano: ed è lì che si capisce quanto conti il gioco di coppia); la terza cosa è la direzione, perché senza una rotta, ci si muove a vuoto. Qui, invece, gli obiettivi sono chiari: alimentare un locale vivo, figo, pieno e con clienti affezionati che ritornano e che si sentono parte di un racconto sincero.
Ci sono ristoranti in cui si va per collezionare piatti. Altri in cui si torna per sentirsi parte di qualcosa. Equilibrio appartiene alla seconda categoria. Non vuole stupire a ogni costo, ma sa come colpire. Non si accontenta del plauso: cerca il coinvolgimento, l'ascolto, la fiducia.