E' morto il 6 ottobre 2025, all'età di 91 anni, Aimo Moroni, monumento della cucina italiana. Pubblichiamo di seguito il racconto delle sue origini raccolto da Gabriele Zanatta per il magazine Dispensa numero 4, pubblicato a ottobre 2015.
Sono arrivato a Milano ad aprile del 1946. Avevo 13 anni. A quel tempo, mio padre faceva il carabiniere a Roma ma era stato ferito e dovette rientrare a casa, in Toscana. Mia madre, classe 1909, aveva sempre svolto il mestiere di cuoca per famiglie importanti, in Italia e in Francia. Ho dovuto lasciare il paesino toscano in cui vivevo, una frazione a 6 chilometri da Pescia, nell'aprile del 1946. i tedeschi in ritirata avevano lasciato le campagne del tutto prive di cibo, non era rimasto proprio nulla. Gli amici e conoscenti non vedendomi più chiedevano a mio padre che fine avessi fatto, lui rispondeva: «Aimo è andato a Milano. È andato a guadagnarsi il pane». Che non era solo un modo di dire: a casa il pane potevamo mangiarlo solo alla domenica. In tutti gli altri giorni della settimana c’era la polenta, un piatto che ha segnato quasi tutta la mia fanciullezza. La mangiavamo alla mattina e alla sera, con un filo d’olio sopra. Nei giorni più felici la accompagnavamo con una fettina di lardo, ma era davvero un lusso.
Quel giorno del '46 faceva un freddo cane. Presi il treno da Prato. Erano soprattutto vagoni adibiti a trasporto bestiame, in fondo c’erano anche due carrozze per passeggeri, con seggiole in legno e riscaldamento inesistente. Impiegammo 12 ore per arrivare alla Stazione Centrale di Milano. Fui ospitato da uno zio che abitava coi tre figli in un piccolo appartamento di due stanze in via Bezzecca, una casa di ringhiera. Iniziai presto a lavorare in cucina grazie all’intercessione di un collega di mio padre: erano impieghi umili, da lavapiatti o garzone. Il mio primo impiego fu in un importante ristorante della centralissima piazza Mercanti. All’epoca la piazza ospitava il mercaa di strasc, un mercato delle pulci molto vivace e frequentato. Il ristorante era molto conosciuto. I milanesi lo chiamavano sempre con l’articolo davanti: “il” Carminati. Era un “night” ma non nel significato odierno della parola: si faceva l’aperitivo, si mangiava e si ballava. Oggi quegli stessi spazi ospitano un McDonald’s.

La Trattoria Lucca, una delle tante insegne toscane del primo Novecento milanese (esiste ancora, in via Castaldi 3, zona Buenos Aires)
Negli immediati paraggi c’erano tanti amici-concorrenti:
Gioacchino,
Da Biagio,
Altopascio,
Lucca. Erano tutti miei compaesani. Io ero all'epoca in una condizione simile a quella di molte persone che emigrano dalle proprie terre in cerca di una vita migliore: ero troppo piccolo e dunque non potevo avere un libretto sanitario, tantomeno quello di lavoro. Io e
Gialindo, un amico coetaneo
, ci mettevamo all’opera da metà pomeriggio perché sapevamo che la
nona, il nome con cui chiamavano in dialetto milanese la polizia annonaria, i controlli li faceva al mattino. Non arrivava quasi mai dopo l’ora di pranzo. Entravamo al Carminati alle 16 a pulire la cantina, scaricare le materie prime, lucidare qua e là, pelare le patate. Facevamo tutti i mestieri, ma a noi non importava, pensavamo solo a guadagnare due spiccioli per mangiare: non essendo mai di turno a pranzo, nel pomeriggio eravamo divorati dalla fame.
IL SOTTOBANCO. Di tanto in tanto io e Gialindo ricevevamo delle mancette dai camerieri. Era poco ma quando riuscivamo a mettere assieme due spiccioli, rovesciavamo tutto sul tavolo, contavamo e andavamo alla salumeria del signor
Villa. Stava in via Piolti de’ Bianchi, non lontano da dove oggi c’è l’aeroporto di Linate. Fuori, sulla vetrina, teneva appeso un cartello che diceva: “sottobanco, poche lire”. Il sottobanco erano l’insieme degli scarti del salumiere: la prima fettina del salame ossidato, l’osso del prosciutto diviso in due, il midollo, il peperone sott'olio non bello. Tutti avanzi che venivano volutamente nascosti alla clientela. Tiravano fuori il tagliere di legno appunto da sotto il banco solo quand’erano sicuri che non entrasse nessuno. Era il nostro momento. Quando andava bene, con 20 lire riuscivamo a portare a casa 4 etti di cibo. Ricordo ancora nitidamente la faccia tonda e sorridente del proprietario, il signor Villa, un uomo buono come il pane. Preparava il
pedrioeu - “imbuto” in dialetto – di carta paglia e ce lo stringeva tra le mani. Spesso ci dava più di quanto io e Gialindo potessimo permetterci: «Lassate sta’, andate andate» e sorrideva. Noi lo prendevamo alla lettera. Scappavamo a casa e ci spartivamo il bottino.

Piazza San Babila, le macerie della Seconda guerra mondiale (foto corriere.it)
QUEL PANE LÀ. Al Carminati lavorava un’anziana signora. Una sera si avvicinò e ci sussurrò: «Se a mezzogiorno volete fare una bella colazione, andate nella panetteria di via Amatore Sciesa». Ero contento perché era una delle poche zone che avevo imparato a conoscere: dormivo accanto in via Bezzecca. «Dovete entrare e chiedere un po’ di
quel pane là». «Che pane sarà mai
quel pane là?», ci guardammo dubbiosi io e Gialindo. Non rimaneva che scoprirlo. Il giorno dopo, prima di andare a lavorare, entrammo nella panetteria. Ricordo l’imbarazzo di essere lì, con l’aria da ragazzi di campagna spaesati tra quel bendiddio di francesini, filoncini e maestose michette milanesi. Vincendo il timore, ci uscì un poco strozzata la formula che ci avevano raccomandato di dire: «Vorremmo un po’ di quel pane,
quel pane là». La panettiera ci ascoltò, si assentò per un attimo nelle retrovie e tornò con due
pedrioeu in mano. Erano colmi di quei pezzi di pane che di solito si usano per grattugiare. Pane duro, gnucco. Ricordo che chiedemmo timidamente quanto costasse. La signora mi guardò, non rispose e chiese a sua volta mi fece: «
Ma, dim' un po’, quanti an te ghè?» (“Ma, dimmi un po’, quanti anni hai?”). Io non avevo capito nulla perché il dialetto milanese all’epoca per me era come l’inglese. Gialindo, che era mantovano, capì il senso e fu lesto a rispondere: «Abbiamo 26 anni in due». Era la verità. Lei si consultò rapidamente col marito e ribatté, questa volta in italiano: «Se venite in un altro momento, non a quest’ora perché c’è gente, per voi ci sarà sempre del pane. Ma non
quel pane là. Il pane fresco». Una gioia infinita.
IL TRAM. Al Carminati finivamo spesso di lavorare tardi, anche oltre l’una di notte. Non ci potevamo permettere il biglietto del tram numero 35, quello che ci avrebbe riportato a casa. La facevamo spesso a piedi, anche perché eravamo molto giovani e in forze. E camminare velocemente era un buon antidoto per non patire il freddo. Una sera, la stessa signora che ci suggerì la panetteria ci rallegrò con un altro consiglio prezioso: «So che tornate sempre a casa a piedi. La prossima volta, salite sul 35 che parte da Piazza Fontana. Quando siete a bordo e incrociate lo sguardo del bigliettaio (all’epoca il controllore sedeva su uno scranno davanti alla porta del tram e forava i biglietti, ndr), ditegli: «Non abbiamo i soldi per pagare il biglietto ma scendiamo alla prima fermata». Seguimmo il consiglio alla lettera. Il bigliettaio rispose: «Tranquilli, mettetevi qui vicino a me, senza passare davanti agli altri passeggeri». Arrivammo al capolinea senza mai scendere. Lo avremmo fatto infinite altre volte.
CESARE IL CUOCO. A un certo momento, al timone della cucina
de Il Carminati arrivò il signor
Cesare. Era un cuoco della scuola napoletana ma per motivi politici era dovuto scappare in Austria. Ricordo benissimo il primo giorno in cui si presentò in piazza Mercanti con la valigia dei coltelli: «Il primo che tocca uno di questi», minacciò subito aprendo lo scrigno, «se la dovrà vedere con me». Parlava bene il tedesco e anche un po’ il francese, una combinazione rarissima per l’epoca. Era un gran professionista e un grande personaggio.
Spesso andavamo a fare dei banchetti nelle ville, colazioni in cui era tutto preordinato. È con lui che ho perfezionato la capacità di riconoscere la materia prima di qualità, un mestiere che avevo già in parte appreso dai miei genitori. Furono loro a insegnarmi a osservare il becco di un volatile per riconoscerne l’età, a vedere se le scaglie sulle zampe delle galline erano pronunciate a mo’ di pelle di coccodrillo, se le unghie erano arcuate: questi segni indicavano che l’animale era stato allevato in modo naturale
, aveva ruspato nella terra.
Con Cesare feci la mia grande gavetta sul campo. E le prime gite al macello della carne di viale Molise. Mi imponeva di trovarmi là davanti alle 6 del mattino. Mi incalzava: «Qua ci sono 200
muciott». Cioè, in dialetto, le cosce col carrè, senza la pancia. Diceva: «Tu passa e, senza farti vedere, sfiora il taglio col dito. Se hai l’impressione di un velluto unto d’olio ti fermi e mi fai segno che va bene. Se invece senti la carne ruvida, vuol dire che dobbiamo passare oltre».
Da
Gioacchino sempre in piazza Mercanti, ho imparato a fare il bordo. Alla mattina dovevamo accendere la stufa: rompevamo le cassette di legno della verdura, le ungevamo con un po’ d’olio perché bruciassero prima e, su questo fuoco, mettevamo il carbone. Subito dopo si metteva sulla stufa, che aveva una piastra unica in ghisa, un pentolone da 30 litri d’acqua con sedano, carote, cipolle, mazzetto guarnito, bacche di ginepro, foglie di alloro, due galline - galline vere -, stinco di vitello, stinco di manzo, pancia di vitello, ossa, ginocchio. Il brodo che ne risultava era straordinario e, oggi come allora, costituisce la base di qualsiasi risotto che voglia definirsi tale.
WANDA OSIRIS. Appena arrivato a Milano vendevo caldarroste d’inverno e gelati d’estate andando in giro con un triciclo di proprietà di mio zio, ma non avevo ovviamente il permesso per circolare e soprattutto per lavorare dato che ero troppo piccolo. Un giorno i
ghisa mi beccarono davanti all’
Opera San Francesco, vicino a viale Concordia. Mi stavano per dare la multa ma intervennero un distinto signore accanto a una signora bionda, vestita elegantemente. Pagarono la mia contravvenzione. Molto dopo scoprii che si trattava di
Carlo Dapporto e
Wanda Osiris. Quel giorno ero troppo emozionato e non trovai le parole per ringraziarli.
Nel 1966, vent’anni dopo, incrociai di nuovo lei seduta per caso accanto al mio tavolo in un bar di Sanremo. Con tutta la brigata, eravamo andati in gita in Liguria per vedere l’arrivo della corsa ciclistica Milano-Sanremo. Fermai il cameriere: «Guardi, sono un amico di quella signora ma non vorrei disturbarla», mentii. Il cameriere mi condusse al tavolo della Osiris, che sedeva con tre amiche. Presi coraggio e le dissi: «Mi perdoni, ma io non ho mai avuto modo di ringraziarla per aver pagato quella multa davanti alla chiesa dei frati». «
Fioueu, me ricordi no», rispose lei in milanese, «è passato troppo tempo ma sì, quella è la mia chiesa». «Se capita in via Montecuccoli», presi definitivamente coraggio, «vorrei ospitarla nella mia trattoria per una sera». Venne per davvero qualche anno dopo. Mangiò un antipasto e un primo, apparentemente soddisfatta. Ero stregato da lei perché aveva un modo di parlare molto musicale, simile a quello dei napoletani. Sembrava recitasse.
CAPODANNO. Era il 31 dicembre del 1946. Il primo capodanno milanese per me e Gialindo. Il Carminati ci aveva dato libera la serata del 31 dicembre. Salimmo sul tram, per andare a casa, ma quella sera decidemmo di scendere all’altezza del
Bar Grandi. Una volta in piazza Grandi ci colpì l’iscrizione su due pezzi di carta paglia, tenuti assieme da una funicella: «Questa notte cenone e balli dalle 22.30 alle 2». Era appesa fuori, sulla vetrina di un locale con l'insegna
Trattoria Pugliese. Ricordo ancora il menu di quella sera: cotechino con lenticchie, cappelletti in brodo o tortelli asciutti, cappone con mostarda, agnello con le patate e, alla fine, il pandolce. Un sogno. Se invece non potevi permetterti il cenone, c’era a disposizione il menu del giorno, che però avremmo eventualmente dovuto ordinare e consumare prima delle 22.30:
busecca (trippa alla milanese) coi borlotti di Vigevano oppure riso
erburinn e
curada.
Da fuori spiavamo in sala i movimenti della
sciura Maria, la cuoca della trattoria, una bella e florida signora, col volto che esprimeva la stessa bontà del salumiere Villa. La
Milan col coeur in man, persone che, 68 anni dopo, porto ancora impresse nel cuore. Con Gialindo facemmo rapidamente i conti: coi risparmi che avevamo, avremmo giusto potuto permetterci la
busecca. Ma non avremmo avuto i soldi per il pane, anche perché allora il pane si pagava in base al numero di michette consumate. Entrammo comunque e ci prese subito una vertigine: i mobili erano tutti in mogano e anche le pareti erano tutte di legno. C’era una scala a chiocciola e una splendida stufa di sasso rosso. «Voi siete quelli del salumiere», ci venne incontro la signora. «Se volete mangiare, però, dovete fare in fretta perché tutti i tavoli sono prenotati per la festa». Ci portò immediatamente due porzioni di
busecca, accompagnata da due bicchieri di spuma
Giommi, un intruglio terribile che a noi pareva champagne!
Intanto, lentamente, cominciavano a entrare gli ospiti del cenone. «Fate presto, fate presto!», ci intimavano dalla cucina. Mangiammo quella trippa squisita fino a leccare il piatto! Prima di andarcene lasciammo i soldi nel piattino del conto. La
sciura Maria ci scrutò velocemente ed esclamò: «
Mument!». Un momento. E sparì. Noi diventammo color barbera dalla vergogna temendo di aver fatto male i nostri conti e non avere abbastanza denaro per pagare. Prendemmo in mano il conto, e prima che ci rendessimo conto di cosa stesse accadendo
, arrivarono sulla nostra tavola due piatti faraonici: cappone con mostarda per me; agnello con patate per Gialindo. «Signora, ma questi piatti non sono nostri», alzammo lo sguardo, con le mani che rimanevano sotto al tavolo. «No, sono proprio i vostri», rispose Maria. Dall’emozione, non riuscimmo a dire nulla. Nemmeno che non ce li potevamo permettere. La signora poggiò le mani sulle nostre spalle, attirò l’attenzione battendo una posata contro un bicchiere e parlando a voce alta a tutta la sala disse: «Signori, chi è che paga questi due piatti?». «Noi!» risposero in coro gli ospiti del cenone. Non lo dimenticherò mai.
(testo raccolto da Gabriele Zanatta, © Dispensa)
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