Ci sono luoghi che riassumono in sé interi mondi. Così l’area etnea: la posizione geografica del vulcano, l’altitudine e la diversa incidenza dei raggi determinano differenze di temperature, umidità ed evoluzione dei suoli. Poi c’è lo Ionio all'origine di abbondanti piogge sul versante orientale. Insomma, si crea un mosaico con tessere differenti, vocate ad altrettante coltivazioni: limoni lungo la riviera, nespole e ciliegie a Est a quote basse, mele più in alto, vite sulla fascia nord-orientale, olivo sul versante nord-occidentale, fragola a Maletto... Poi, pistacchio a Bronte e nocciola a Linguaglossa; il primo celeberrimo, la seconda meno nota.

Lavorazione del Pistacchio verde di Bronte (Ct)
Poche settimane mancherebbero alla raccolta del frutto verde dell’albero che gli arabi chiamano
fustuaq (e in siciliano è
festuca o
frastuca), se questo fosse l’anno “buono”. Il pistacchio fruttifica in un ciclo biennale e, per tradizione, quasi tutti i produttori dell’area giungono a raccolto nell’anno dispari, appuntamento dunque nel 2015. Sono pochi (il 10% circa) quelli che hanno invertito la rotazione, con esiti discutibili, spiega
Nunzio Caudullo, 54 anni, che gestisce l’
azienda fondata dal padre: «Se un solo fondo produce pistacchi, mentre quelli confinanti sono in pausa, si registra una concentrazione di parassiti sui frutti disponibili. Senza contare che il rispetto del ciclo biennale interrompe la catena di riproduzione dei parassiti stessi…». Caudullo è responsabile del
presidio Slow Food, una realtà nata alla fine degli anni Novanta e che impone alle aziende aderenti un disciplinare più rigoroso rispetto a quello del
Consorzio di tutela, sorto nel 2001 e poi rifondato nel 2010, quando è stato ottenuto il marchio Dop, e che raggruppa circa 400 produttori. Un numero apparentemente considerevole, ma perlopiù costituito da realtà piccole: non è un caso che – a fronte di una sempre maggiore richiesta di pistacchi in tutto il mondo – la produzione italiana rappresenti circa lo 0,7% «ma nelle annate più favorevoli», chiosa Caudullo.
Ciò non toglie che, in termini di qualità, Bronte non abbia rivali rispetto alla concorrenza di internazionale. C’è addirittura chi ha creato un percorso museale per riconoscere già alla vista il pistacchio locale ed evitare contraffazioni: è la Antichi Sapori dell’Etna, bella realtà dolciaria con un fatturato di 13 milioni di euro e fino a 130 dipendenti, quando lavora a pieno ritmo. Opera con tre marchi, Vincente, Pistì e Madero, e rifornisce anche «grandi pasticceri, basti fare il nome di Luigi Biasetto», spiega Nino Marino, dirigente dell’azienda, che esporta il 30% della produzione: creme dolci, croccanti, torroni, biscotti, panettoni… Più piccola la realtà della Evergreen di Pietro Bonaccorso, aderente Slow Food (ma lo spaccio interno è consigliabile), mentre il miglior gelato è giudicato quello del bar Conti Gallenti, sul viale nobile.

Nino Berizia, 58 anni, dietro alla vetrinetta de L'Alhambra, pasticceria di Linguaglossa (Catania) specializzata in prodotti con la pasta della locale prelibata nocciola (foto Passera)
Se il pistacchio siciliano rimane produzione limitata, la nocciola etnea risulta persino più di nicchia, anche se è squisita: cresce tra i terreni fertili che ruba alla lava, profumandosi dell'intenso aroma di ginestra. Indirizzo di riferimento è la pasticceria
L’Alhambra, fondata nel 1939 a Linguaglossa e da allora gestita dalla famiglia Barone. «Siamo una piccola impresa artigiana» spiega
Nino Berizia, 58 anni, coniuge della titolare
Rosaria Barone. Ma più delle sue parole vale l’assaggio: dolcetti di assoluta bontà, di pasta di mandorle (agrigentine. C’è anche la versione profumata agli oli essenziali d’arancio), pistacchio e appunto nocciola, il vero vanto locale. Basta l’aggiunta di zucchero, miele e albume per regalare istanti di felicità.