Tutto quello che avreste voluto sapere sulla capsicina e non avete mai osato chiedere, Caterina Ceraudo lo sa. «Sì, c’entra anche con l’eros», anticipa liquidando alla svelta il più esausto dei luoghi comuni intorno all’ingrediente nient’affatto segreto del suo gastro-universo: il peperoncino, ovviamente.
Contrada Dattilo, agro di Strongoli, provincia di Crotone, terra calabra, profondissimissimo Sud. È qui che brilla la stella del Dattilo, appunto, dove a 27 anni Caterina detta la linea ai fornelli, non prima di averla cercata dentro se stessa: «Il mio desiderio, il più profondo, è quello di coniugare salute e leggerezza senza rinunciare al gusto», confessa. Hai detto niente.
Mentre oltralpe si imponeva la rivoluzione nouvelliste, Caterina non era ancora nata. E quando Bocuse aveva diffuso il suo verbo ai quattro angoli del globo, le grandi famiglie del mezzogiorno d’Italia si stremavano in pranzi pantagruelici rinnovando il patto di sangue e colesterolo con una cucina ipercalorica.

Caterina Ceraudo con il papà Roberto
«Sono cresciuta con le prelibatezze di
zia Mariuccia, una zia paterna quasi 80enne, e della nonna. Pasti da 13 portate (in Calabria porta fortuna, ndr) come quello della Befana, apparecchiato per dodici figli e 27 nipoti», racconta miss chef, che dalle maestre di casa di sicuro ha ereditato il talento.
Poi ha fatto e fa a modo suo, non prima dell’apprendistato in quel di Castel di Sangro fra i banchi della
Scuola di alta formazione di
Niko Romito. Se le vegliarde di casa le hanno insegnato la tradizione,
Niko le ha insegnato il rispetto per la materia prima. Dall’una e l’altra lezione è nata la sua personale recherche sulla
‘nduja, di cui
ha svelato le tappe a
Identità piccanti, anno zero.
«Sono andata a Spilinga (Vibo Valentia), ho conosciuto un’azienda di nuova generazione e la signora che fa il prodotto come tradizione comanda, ho visto le sue grandi mani ancora all’opera a 89 anni», e le si è aperto un mondo.
Se è vero che la piccantezza in Calabria è la nota dominante ovunque, legumi, verdure, paste e persino i dolci, nelle mani di
Caterina Ceraudo è il solo in fondo, la nota che accende i singoli ingredienti nel piatto. Così nella
‘nduja, il prodotto a base di sale, peperoncino e maiale ha un equilibrio moderno, con differenti personalità a seconda della stagionatura a tre mesi, un anno, fino a sei anni: «La differenza è nel piccante, la prima cosa che uno avverte in quella più giovane. Nella più stagionata, è l’ultima».

Caterina, insieme a Sonia Gioia, sul palco di Identità Piccanti al congresso dello scorso febbraio
Non sono ciliegie, è evidente, ma assaggiato un pezzo il glutammato naturale ti fa salivare e richiede necessariamente un altro boccone, e poi un altro. Questo vuol dire spostare un passo in avanti la tradizione per la ragazza di Calabria in toque, che da papà
Roberto ha imparato ad osare, ma con cura, visto che in casa
Ceraudo si pratica l’agricoltura biologica dai lontani anni ’80, assai in anticipo sulle mode.
Vedi la borragine «l’ho sempre mangiata con tanto olio in forma di zuppa. Io invece ci ho fatto un’acqua». È in quest’acqua che cuoce lo spaghetto condito con peperoncino (cornetto calabrese, molto piccolo e stretto) crudo, ricotta salata di pecora stagionata e quel tanto che basta di alici sotto sale. Leggerezza terragna e sapidità in quattro ingredienti. E sapore assoluto, come
Niko insegna.