Cucina fa rima con impegno. Sono, infatti, numerosi gli chef che coniugano l’attività (e la ricerca) in cucina con la responsabilità sociale. Il che significa, per esempio, combattere lo spreco alimentare e dare da mangiare a chi ne ha bisogno. E’ ciò che fa Massimo Bottura con il suo Refettorio che, dopo l’esperienza milanese, è sbarcato a Rio in occasione dei giochi olimpici (leggi qui uno dei nostri articoli). Scenario diverso, ma identico obiettivo: utilizzare gli avanzi di cibo (in un caso di Expo, nell’altro caso del villaggio olimpico) per preparare un pasto destinato ai più poveri.
Lo chef è anche il fondatore di Food for Soul, un’organizzazione non-profit che vuole fare cultura sul tema e diffondere in altre città il modello del Refettorio. A partire da New York, dove - come ha anticipato lo stesso Bottura sul suo profilo Instagram – dovrebbe aprire nel 2017. Si pone nella stessa area l’iniziativa Il Buono che avanza, sostenuta da una rete di ristoranti. Le strutture che aderiscono – tra le quali si annoverano nomi celebri come D’O e Joia - propongono ai clienti di ritirare gli eventuali avanzi della cena o del vino e, insieme alla doggie bag, consegnano un volantino che spiega il valore e lo spirito dell’attività.

Ieri, domenica 2 ottobre, è tornata la Bio*Sagra for Kids, iniziativa solidale voluta, tra gli altri, dalla chef capitolina Cristina Bowerman, come abbiamo raccontato qui
Queste operazioni funzionano davvero? Sicuramente svolgono un importante ruolo di sensibilizzazione presso l’opinione pubblica rispetto a un tema che nella nostra società tende a essere dimenticato. Il fatto che a farsene portavoce siano proprio gli chef rende il messaggio ancora più significativo e impattante. In altri termini, se il monito contro lo spreco arriva da chi lavora ad alto livello con il cibo è più probabile che i consumatori lo ritengano credibile. E vi prestino ascolto. Ma queste iniziative ci dicono anche un’altra cosa: oggi agli chef, o almeno ad alcuni di loro, è riconosciuta una funzione sociale. Non sono più solo coloro che ci spiegano come fare un soffritto perfetto oppure come abbinare gli ingredienti, ma si fanno portatori di una visione del mondo, di un insieme di valori.
Certo, non è così per tutti. Quanto più la storia, e il profilo, dello chef sono coerenti con il messaggio che trasmette, tanto più il pubblico è incentivato a concedergli fiducia. In altri termini, è difficile risultare credibili quando si parla di lotta alla povertà se fino a qualche tempo prima si è stati il testimonial della carne in scatola o il protagonista dell’ennesimo programma televisivo di cucina.

La cerimonia di consegna del Basque Culinary World Prize. Ha vinto l'italo-venezuelana Maria Fernanda Di Giacobbe, come abbiamo raccontato qui
Ovviamente responsabilità sociale non significa soltanto impegno contro la povertà. Molti professionisti dell’alta cucina si mobilitano in favore dell’identità e della produzione dei territori. I primi a muoversi sono stati i fondatori di
Slow Food, che hanno introdotto il concetto di difesa e valorizzazione dei prodotti locali. Un concetto che si è diffuso in fretta e oggi viene declinato in molteplici varianti. C’è chi punta sul recupero di ingredienti che, altrimenti, rischiano di scomparire (come fanno, per esempio,
Gianfranco Pascucci in Italia,
Alicia Gironella in Messico e
Jock Zonfrillo in Australia,
leggi qui) e chi privilegia le materie prime a km zero, come
Vincenzo Cammerucci o lo chef-pizzaiolo
Alberto Morello. Ma l’elenco potrebbe essere più lungo.
Per rendersene conto basta dare un’occhiata ai nomi in lizza per il Basque Culinary World Prize, il riconoscimento ideato per premiare i cuochi che, con il loro operato, vogliono migliorare la società (leggi qui e qui). Si va dal cileno Rodolfo Guzman (sul cui impegno leggi qui e qui), la cui cucina s’ispira alle tradizioni delle antiche popolazioni autoctone, allo spagnolo Angel Lèon (leggi qui), che utilizza (e ottimizza) in maniera spesso sorprendente i prodotti del mare, in primis quelli più poveri.

C’è, poi, un altro filone d’impegno, che potremmo definire di “riabilitazione sociale”. Si pensi agli chef che lavorano con i detenuti, con i disabili o con persone che si trovano in una situazione di emarginazione economico-sociale. Qui l’obiettivo è di tipo formativo: si cerca di fornire a chi è in difficoltà competenze utili a favorirne il (re)inserimento nel contesto lavorativo. Un esempio particolarmente interessante è rappresentato dai ristoranti collocati all’interno del carcere, come l’italiano
InGalera - ospitato nella struttura di Bollate - o gli inglesi
The Clink (
leggi qui).
L’ubicazione dei locali e il coinvolgimento dei detenuti in tutte le fasi del lavoro, compreso il servizio al tavolo, permettono ai clienti da una parte di vivere un’esperienza inusuale, diversa dal solito e dall’altra parte di avere una visione non stereotipata, convenzionale di chi vive in prigione. Insomma, si tratta (anche) di un modo per ribaltare i luoghi comuni. Anche se resta il rischio che molte persone siano motivate più da una curiosità voyeristica che da un reale interesse per il progetto.