03-10-2016
Funziona, e con quali presupposti, l'impegno sociale di chef come Massimo Bottura, impegnato con la sua iniziativa dei Refettori in giro per il mondo e con Food for Soul? L'analisi per Identità Golose di Anna Zinola, docente di psicologia del Marketing all'Università di Pavia
Cucina fa rima con impegno. Sono, infatti, numerosi gli chef che coniugano l’attività (e la ricerca) in cucina con la responsabilità sociale. Il che significa, per esempio, combattere lo spreco alimentare e dare da mangiare a chi ne ha bisogno. E’ ciò che fa Massimo Bottura con il suo Refettorio che, dopo l’esperienza milanese, è sbarcato a Rio in occasione dei giochi olimpici (leggi qui uno dei nostri articoli). Scenario diverso, ma identico obiettivo: utilizzare gli avanzi di cibo (in un caso di Expo, nell’altro caso del villaggio olimpico) per preparare un pasto destinato ai più poveri.
Lo chef è anche il fondatore di Food for Soul, un’organizzazione non-profit che vuole fare cultura sul tema e diffondere in altre città il modello del Refettorio. A partire da New York, dove - come ha anticipato lo stesso Bottura sul suo profilo Instagram – dovrebbe aprire nel 2017. Si pone nella stessa area l’iniziativa Il Buono che avanza, sostenuta da una rete di ristoranti. Le strutture che aderiscono – tra le quali si annoverano nomi celebri come D’O e Joia - propongono ai clienti di ritirare gli eventuali avanzi della cena o del vino e, insieme alla doggie bag, consegnano un volantino che spiega il valore e lo spirito dell’attività.
Ieri, domenica 2 ottobre, è tornata la Bio*Sagra for Kids, iniziativa solidale voluta, tra gli altri, dalla chef capitolina Cristina Bowerman, come abbiamo raccontato qui
Certo, non è così per tutti. Quanto più la storia, e il profilo, dello chef sono coerenti con il messaggio che trasmette, tanto più il pubblico è incentivato a concedergli fiducia. In altri termini, è difficile risultare credibili quando si parla di lotta alla povertà se fino a qualche tempo prima si è stati il testimonial della carne in scatola o il protagonista dell’ennesimo programma televisivo di cucina.
La cerimonia di consegna del Basque Culinary World Prize. Ha vinto l'italo-venezuelana Maria Fernanda Di Giacobbe, come abbiamo raccontato qui
Per rendersene conto basta dare un’occhiata ai nomi in lizza per il Basque Culinary World Prize, il riconoscimento ideato per premiare i cuochi che, con il loro operato, vogliono migliorare la società (leggi qui e qui). Si va dal cileno Rodolfo Guzman (sul cui impegno leggi qui e qui), la cui cucina s’ispira alle tradizioni delle antiche popolazioni autoctone, allo spagnolo Angel Lèon (leggi qui), che utilizza (e ottimizza) in maniera spesso sorprendente i prodotti del mare, in primis quelli più poveri.
L’ubicazione dei locali e il coinvolgimento dei detenuti in tutte le fasi del lavoro, compreso il servizio al tavolo, permettono ai clienti da una parte di vivere un’esperienza inusuale, diversa dal solito e dall’altra parte di avere una visione non stereotipata, convenzionale di chi vive in prigione. Insomma, si tratta (anche) di un modo per ribaltare i luoghi comuni. Anche se resta il rischio che molte persone siano motivate più da una curiosità voyeristica che da un reale interesse per il progetto.
Recensioni, segnalazioni e tendenze dal Buonpaese, firmate da tutti gli autori legati a Identità Golose
a cura di
Si occupa di consumi, come ricercatore e consulente, da oltre 20 anni. Dal 2003 insegna Psicologia del marketing all’Università di Pavia. Ha scritto alcuni libri sugli stili di consumo