E tu, che terroir sei? La domanda apparirà oziosa, una versione gourmet stile sesso degli angeli, ma non lo è poi tanto. Sottende infatti una scelta di fondo: quell’insieme concettuale che mischia alla rinfusa territorio, conoscenze, genius loci, tradizioni, storia e cultura, e che per fortuna è sintetizzabile in una sola parola, seppur presa in prestito dalla Francia – terroir appunto –, richiama più le radici o i frutti? E’ insomma conservatrice o progressista? «Che poi non dovremmo neppure più usare tale termine, troppo inflazionato dagli uffici marketing. E io infatti non la uso quasi mai, le preferisco “terra”», sottolineava brillante Michel Bras, ospite d’onore del dibattito che, nel secondo giorno di Care’s in Val Badia, all’esegesi del suddetto terroir era dedicato.

I protagonisti del dibattito a Care's: Fernanda Roggero, Andrea Petrini, Licia Granello, Jock Zonfrillo, Michel Bras, Michele Cannone (direttore del marketing Food Service di Lavazza) e Anderson Ricardo Silva, imprenditore del caffé a Lambarì, Brasile
Sul palco, era toccato a
Fernanda Roggero e
Licia Granello inquadrare la questione. Trovandosi le due subito d’accordo: «Non è un concetto conservatore. Le radici non bloccano lo sviluppo della pianta, ne sono una precondizione necessaria. Poi cresce la creatività», aveva evidenziato la prima, con la
Granello che confermava: «Quando parliamo di tradizione, ci troviamo di fronte a due accezioni possibili: una chiusa, identitaria, l’altra invece inclusiva, che rimanda a quel luogo materiale e ideale dal quale iniziare ogni processo di sviluppo. Il
terroir in questo secondo caso è fantastico: perché non può esistere alcun’alta cucina creativa senza le fondamenta necessaria costituite dai tanti straordinari produttori di cose buone che fanno vivere il territorio».
Un terroir, dunque, aperto e “democratico”, persino accogliente, perché non s’acquisisce con la nascita, non s’eredita per diritto di sangue, ma può essere appreso col tempo, «va vissuto, respirato. Bisogna immergercisi, parlare con la gente». La stessa tradizione, bastione potenzialmente reazionario, «è una materia vivente, e colui che per guardarla si volta indietro, cioè la fissa nel passato, rischia di vedersi trasformato insieme alla tradizione in una statua di sale. La tradizione è un movimento perpetuo. Avanza, cambia, vive. La tradizione vivente è ovunque; sforzatevi di mantenerla al passo», come diceva Jean Cocteau, citato per l’occasione da Bras.

Massimo Bottura e Norbert Niederkofler alla cena di gala della penultima giornata di Care's
E a proposito di
terroir inclusivo e plurale, l’irruzione nel dibattito di uno come
Jock Zonfrillo, già con
Marco Pierre White, è parsa cacio sui maccheroni. «Io sono figlio del tè alle cinque e della pasta al pomodoro. I miei
terroir di riferimento iniziali sono stati infatti due: la Scozia dove sono nato, e dove mio nonno materno faceva il
farmer, e l’Italia dalla quale proveniva il mio nonno paterno, partenopeo, che mi ha insegnato la cultura del prodotto».
Zonfrillo, a questi due iniziali, ha affiancato l’apprendimento delle tecniche francesi e poi un ulteriore terroir, radicalmente diverso, quello australiano dove lavora oggi. «Per sette volte sono andato nel deserto per chiedere agli aborigeni di raccontarmi la loro cultura, anche e non solo alimentare, perché non potevo credere che un popolo con così tanti secoli di storia non ne avesse sviluppata una. Per sei volte mi hanno rimandato a casa. Alla fine si sono convinti e mi hanno detto tutto. Oggi nelle mie cucine (Street-ADL e Orana, entrambi ad Adelaide, ndr) uso più di 60 ingredienti tradizionali degli aborigeni. Solo il 10% è costituito da proteine animali, il resto sono verdure, radici, vegetali in genere». Così lo scorfano viene cotto in un intreccio di legno di mangrovia, che conferisce fumo e sale. Terroir dell’altro mondo.