29-01-2021
Mirella Del Nevo (1927-1986) e Giuseppe Cantarelli (1919-1992), moglie e marito alla guida della mitica trattoria Cantarelli, chiusa il 31 dicembre 1982. La loro lezione è diventata un modello per la cucina italiana
Sembrava una semplice osteria di campagna nella Bassa Parmense, come tante altre, lungo l'attuale strada provinciale 91, a Samboseto, gruzzoletto di case con Busseto a sette chilometri. Zone tranquille, e d'inverno nebbiose ancor oggi; anche di più qualche decennio fa. L'edificio appariva all'esterno anonimo, grigio, con la toilette fuori dell’uscio, in cortile. L'insegna era semplice. Però «superata la soglia (con il bancone delle cose di uso corrente a destra e, a sinistra, il frigorifero), si entrava nel regno delle fate» ha scritto Baldassarre Molossi.
Era la mitica trattoria Cantarelli.
Ne parliamo oggi, perché è stata archetipo di tanta cucina contemporanea; e con quest'ultima ora in stand by, val la pena per un attimo volgere lo sguardo al passato per fissarlo nella nostra memoria e trarne magari qualche insegnamento. Non si parla diffusamente di "trattorie moderne", in questi ultimi anni? Cantarelli tale era, però oltre mezzo secolo fa. Che poi, non era nata nemmeno solo come trattoria: semmai come emporio di campagna, uno di quei presidi dispersi - e oggi sempre più rari - dove si trovava un po' di tutto, dal sapone per il bucato e dalle bustine di lievito ai tubi dei lumi a petrolio, alle spolette di filo per cucire e al bicarbonato di soda: era posto telefonico pubblico, rivendita di generi alimentari, drogheria paesana, spaccio di sali e tabacchi, ma anche un luogo dove i contadini la sera bevevano bicchieri di lambrusco e fortana fra una partita e l’altra di briscola, mangiando all'occorrenza qualcosa. «Si entra, la porta scampanella, c’investe quell’odore misto di saponette, di tabacco, di spezie e di onorata muffa di salami, spalle e culatelli che pendono dalle travi annerite del soffitto» (Pier Maria Paoletti, Panorama, 1966).
Una vecchia immagine della trattoria Cantarelli. Scrisse Federico Umberto d’Amato sulla Guida ai ristoranti de L’Espresso del 1979: «Negli anni ‘50, negli anni ‘60, anni bui per la nostra cucina (...) davanti alla superbia francese, peraltro giustificata, potevamo almeno replicare: "Voi avete il vostro Point, il vostro Bocuse, noi abbiamo il nostro Cantarelli". Ed in effetti non avevamo che lui (e il rimpianto Nino Bergese). Poi è venuta la "nuova cucina" e noi, che ne siamo accaniti fautori, non possiamo dimenticare che già prima che questa "filosofia" gastronomica si affermasse, Mirella Cantarelli ne anticipava i principi e la pratica, litigando con la suocera, brava cuoca all’antica, che le rimproverava di essere in cucina una ragazza troppo originale e "moderna"»
Fin qui, nulla di strano, una placida successione generazionale in un'osteria dispersa tra i campi. Poi però succede qualcosa; e succede ad Alassio, nel 1948. Ebbe a ricordare Mirella: «Ero là in vacanza con la bambina e un giorno entro in un negozio bellissimo (un vinaio, in vetrina una matusalemme di Pommery, ndr), con un assortimento straordinario, venti marche solo di cognac. Quando viene Peppino a trovarmi, lo porto a vederlo: un negozio così era il mio sogno, e gliel’ho detto. Spostiamoci in città, magari a Fidenza, dico, e apriamo un bel negozietto di specialità. Peppino ci ha pensato sopra un bel po’, e poi ha detto: mettiamo della bella roba a Samboseto, vedrai che la gente ci verrà». Scrive Paoletti: "(Peppino) appena tornò a casa pensò di mettere qualche bottiglia pregiata, così per civetteria, nell’osteria di sua madre. (...) Si comperò tutti i trattati fondamentali, come vanno serviti i vini e con quali portate e un bel giorno decise di andarsene a scuola in Francia. Salutò moglie e madre, andò a Parma, prese il treno e partì per Bordeaux per visitare le cantine dei Rothschild a Pauillac. Fu alla direzione della Bergerie e chiese se poteva visitare i suoi tre famosi Châteaux: il Baron Philippe, il Mouton, il Lafite. Quelli furono gentilissimi, gli fecero assaggiare addirittura le annate migliori, il ‘28 e il ‘47, gli mostrarono la riserva personale e perfino il museo di pipe e di bicchieri di tutte le parti del mondo. E infine il barone, preso da forte simpatia per questo giovane provinciale incantato come davanti al tesoro degli Asburgo, l’invitò a cena e gli spiegò, da par suo, una quantità di cose che doveva sapere".
L'articolo uscito su Panorama nel 1966, lo firma Pier Maria Paoletti
Peppino Cantarelli in bottega. Ha raccontato il figlio Fernando: «Mio padre era decisamente a proprio agio quando aveva a che fare con giovani inesperti ma interessati alla materia, rispetto invece a chi si dava delle arie di connoisseur, senza avere né il talento né le capacità. Per questi ultimi escogitava scherzi feroci, come quando riempì con il rosso amaro della casa (un ottimo Montepulciano, peraltro) una bottiglia di Château Mouton-Rothschild che uno chef di rinomanza internazionale aveva ordinato come accompagnamento della propria cena. Al momento di pagare l’illustre personaggio avvertì mio padre che c’era un errore nel conto, visto il prezzo decisamente a buon mercato della bottiglia che era stata ordinata: e allora Peppino spiegò che no, quello era il prezzo giusto del vino bevuto e apprezzato come se fosse stato il nobile bordolese»
Harvey Keitel e Robert De Niro seduti a un tavolo del Cantarelli
Una cartolina spedita al Cantarelli da Giovannino Guareschi
Peppino Cantarelli serve Bruno Pizzul
Il bel libro (straricco di informazioni, che abbiamo sintetizzato in questo articolo) I Cantarelli - Storia e mito della cucina italianafirmato da Alberto Salarelli. È del 2013, oggi purtroppo risulta esaurito
Tra le ragioni del successo del ristorante abbiamo tenuto per ultima la cucina: ma è solo per mera scelta narrativa. La timida Mirella che, lo abbiamo visto sopra, ancora giovanissima neo-sposa imparava dalla suocera a cucinare alla perfezione i piatti della tradizione si era rivelata con gli anni ricca di estro e fantasia; instancabile facitrice di bontà rimaste nella storia della tavola italiana; capace di creare nuovi accostamenti sapientemente armonizzati, in questo stimolata dal marito, che lei chiamava “il Chimico” per la sua pignoleria nell’analizzare ciò che ella preparava. «Peppino, per istinto di perfezione e senza rendersene conto, rimette in discussione la tradizione approfondendola e portandone al massimo rendimento tutti i dati» (Marco Guarnaschelli Gotti).
Mirella Del Nevo al lavoro in cucina. Il gastronomo Toni Sarcina una volta le chiese il motivo dei “23 tuorli per ogni chilogrammo di farina” e lei rispose: «Come vedi, non sono un tipo tranquillo e qualche volta Peppino, con le sue critiche, mi innervosisce; un giorno di molti anni fa stavo facendo la sfoglia e, dopo una discussione su un piatto, ero abbastanza irritata e, dividendo i tuorli dagli albumi, parlando nello stesso tempo, continuavo a rompere le uova mettendole al centro della “fontana” di farina e non mi ero accorta di aver messo 23 tuorli; che fare, buttare tutto? Nemmeno per sogno! E feci l’impasto; era buonissimo, giallo e le tagliatelle fantastiche. Da quel momento, la pasta all’uovo della mia cucina fu fatta da 23 tuorli per chilo di farina»
E aggiunge ancora: «La cucina dei Cantarelli riuscì a sfuggire dai rischi della dittatura dei piatti tipici, veicolatori di pratiche gastronomiche fortemente reazionarie, tese cioè all’idealizzazione di usi e costumi spesso inventati di sana pianta, grazie ad una propensione, che divenne sempre più spiccata nel corso degli anni, verso la ricerca e la sperimentazione. (...) Se non si intende questa attitudine non è possibile capire perché il ruolo interpretato dai Cantarelli sia considerato un passaggio fondamentale nella storia della cucina italiana contemporanea e Samboseto, per dirla con Stefano Bonilli, il luogo del mangiare che diventa in quegli anni il parametro della nuova cucina». E Fulvio Pierangelini: «Mirella riusciva a sublimare la cucina di casa: il massimo di ciò che si può fare nel nostro mestiere. Fare cose che oggi chi è arrogante dice essere semplici. Ma il gesto è naturale, si conosce la materia e allora non c’è bisogno di sovrastrutture. Mirella aveva la precisione dell’esecuzione. Nella scelta di quel piatto si era vista la sua forza. Le cose complicate le fa chi non sa cucinare. Il suo vitello era un concentrato di sapienza, di storia, di necessità ed economia domestica, di savoir-faire e cultura popolare».
«Gli anolini? Sono quelli ricchi di Parma, non quelli austeri, senza carne, di sotto Po: ripieno di manzo stracotto macinato fine, con Parmigiano, uovo, pangrattato, noce moscata, il tutto "mouillé" col denso sugo dello stracotto stesso. La pasta: 24 rossi più 2 bianchi per chilo di farina! Brodo di manzo e di gallina. La bomba di riso è una meraviglia in stampo di rame foderato di pangrattato, dorato e croccante, ripiena di fragrante carne di piccione stufato: specialità di Busseto, capolavoro di Ines Cantarelli. A questo punto abbiamo capito che qualcosa di straordinario c’è: Peppino, "il Chimico", per istinto di perfezione e senza rendersene conto, rimette in discussione la tradizione approfondendola e portandone al massimo rendimento tutti i dati (le uova sono l’ideale dell’uovo, ogni pizzico di cannella o di pepe è provato e ricalcolato, il Parmigiano grattugiato è un Parmigiano da concorso nel brodo partner del manzo è la gallina perché il cappone, provato, lo dà troppo "dolce"...). Tipica pignoleria par- migiana? Certo, ma in positivo, applicata in pratica» (Marco Guarnaschelli Gotti)
Il Savarin di riso. Ha detto Andrea Grignaffini: «In quegli anni, è d’uopo ricordarlo, era in voga un modello culinario cucito su quello francese, un modello senza storia, né futuro, un falso mito che aveva fatto scemare anche il ricordo della tradizione culinaria italiana. Ma Cantarelli questo l’aveva capito, e così nacquero piatti come il leggendario Savarin di riso, una creazione così ben concepita che, assieme agli altri elementi, fecero della trattoria Cantarelli il luogo prediletto dove celebrare la resurrezione della cucina italiana»
Un menu superbo di suo, affinato con gli anni, che già all'inizio però attirò molta attenzione tra i buongustai. La fama della trattoria Cantarelli si sviluppa in almeno tre passaggi fondamentali. Primo, anno 1956: il "Vitello prelibato" (divenuto più tardi ovviamente "Vitello alla Cantarelli") vale al ristorante un articolo di lode sull’Informatore Moderno di Milano, un periodico a circolazione e clientela fortemente specializzata, soprattutto liberi professionisti.
Il Viaggio nella valle del Po di Mario Soldati, sulla neonata Rai
Peppino Cantarelli accoglie Mario Soldati all'entrata della bottega
La telecamera indugia sulle bottiglie francesi
Soldati mostra un pezzo di culatello
Soldati con la signora Mirella
Cantarelli e Soldati, in piedi, attorno a una tavola
Metà degli anni Settanta, siamo quasi alla chiusura dell'epopea. Peppino andrebbe avanti, ma Mirella è sempre più stanca, «mia moglie ormai lavorava appoggiandosi, faceva fatica a stare molte ore in piedi. Io non avevo cuore di guardare quelle sue gambe gonfie, lei che da giovane aveva delle gambe che sembravano quelle di Marlene Dietrich. Né d’altra parte abbiamo mai pensato di prendere dei cuochi. Le mani sono mani, non si possono sostituire. Meglio chiudere che tirare avanti non avendo la garanzia di essere all’altezza della propria reputazione», uscita di scena da primattori all’apice della carriera, viene in mente Ferran Adrià.
Com'era...
...e com'è oggi
Recensioni, segnalazioni e tendenze dal Buonpaese, firmate da tutti gli autori legati a Identità Golose
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classe 1974, milanese orgoglioso di esserlo, giornalista professionista dal 1999, ossia un millennio fa, si è a lungo occupato di politica e nel tempo libero di cibo. Ora fa l'opposto ed è assai contento così. Appena può, si butta su viaggi e buona tavola. Coordinatore della redazione di identitagolose.it e curatore della Guida di Identità Golose alle Pizzerie e Cocktail Bar d'autore. Instagram: carlopassera
Un celebre scatto che ritrae Alberto Sordi in una scena di Un americano a Roma, film diretto da Steno e uscito nelle sale proprio in quello stesso 1954 in cui Elizabeth David dava alle stampe il suo Italian food
Pranzo sul mare (anzi, nel mare) nell'Italia del Secondo Dopoguerra, qui siamo a Milano Marittima, frazione di Cervia (Ravenna) negli anni Sessanta e lo scatto, di Sante Crepaldi, è tratto da Silvano Collina - Il visionario, libro biografico scritto da Massimo Previato e dedicato appunto a Collina, mitico albergatore "estroso", allora direttore del Grand Hotel Bellevue di Milano Marittima stessa