Lo avevano ricoverato a Senigallia lunedì scorso, il 16 marzo, si è spento questa mattina, all’alba del primo giorno di primavera. Gianni Mura se ne è andato il 21 marzo in silenzio, con garbo, come aveva sempre vissuto. Mai sopra le righe, mai a ostentare una grandezza che nasceva dalle cose fatte e anche da quelle non fatte, rinunce che a volte pesano come i sì che si sono detti lungo l’arco della propria vita.
Al di là del nome in comune, Gianni, Mura è stato l’erede di Gianni Brera. Entrambi lombardi, ma Mura di Milano, dove nacque il 9 novembre 1945, e Brera di San Zenone Po, la luce vista l’8 settembre 1919, la morte in un incidente d’auto il 19 dicembre 1992. Per dare la dimensione della grandezza di Brera, si ricordava che divenne direttore della Gazzetta dello Sport nel 1949 a 30 anni, il più giovare di sempre, e senza l’aiuto della televisione.

Gianni Mura con il suo maestro Gianni Brera, a destra in piedi
Qualcosa di simile possiamo dirla di
Mura: dotato di una straordinaria memoria, capace di giocare per ore con i nomi, ad esempio di calciatori, in sfide a chi ne citava uno in più – e guai se, scelta ad esempio la R, uno pronunciava troppo presto
Rivera o
Riva -, in grado di citare di tutto e di più, non si è mai concesso ai social. Chi lo voleva seguire doveva aprire
Repubblica dove approdò fin dal primo numero nel 1979, testata che non avrebbe mai lasciato, dopo avere iniziato quindici anni prima alla
Gazzetta, direttore
Gualtiero Zanetti. Proprio
Zanetti cestinò il suo primo pezzo perché, gli disse, i muratori della Bovisa, i lettori simbolo, un po’ come la casalinga di Voghera anni e anni dopo per
Beniamino Placido, non lo avrebbero capito, troppa cultura e citazioni alte. Lezione colta al volo.
Leggerlo era un piacere assoluto, imperdibile ad esempio la rubrica domenicale
Sette giorni di cattivi pensieri nelle pagine sportive della
Repubblica. Dava voti a tutti, senza guardare tessere di partito, amicizie, ruffianerie, schieramenti editoriali. Non gli pesava nemmeno essere diventato gioco forza l’erede di
Brera. In fondo si assomigliavano nel fisico, nei pregi e nelle abitudini, nel piacere del cibo e del fumare, perché fare finta non fosse così? Altri ne sarebbero rimasti schiacciati.
Ho sempre ammirato in Mura la capacità di guardare le persone negli occhi per giudicarle con il proprio cervello e il proprio cuore. Era diretto come quando a una lontana edizione della Marcialonga, nelle valli trentine di Fiemme e Fassa, conobbe in sala stampa Paola Gius, figlia di ristoratori e di vignaioli. Lei è la Paola che dal 1991 ha firmato con lui la rubrica Mangia & bevi nel Venerdì di Repubblica. Gianni curava la parte cibo, il Mangia, Paola il vino, il Bevi. Ed erano

Paola e Gianni Mura ritratti stilizzati, merito di Stefano Savi Scarponi, nella testata della rubrica Mangia & Bevi che curavano da quasi trent'anni nel Venerdì di Repubblica
sempre scelte originali, lontane da ogni banalità. L’insegna era raccontata a iniziare da chi la guidava e vi lavorava, poi venivano i fornitori, le storie a monte dei piatti, infine i piatti stessi. E le scelte spaziavano dalle osterie care a
Slow Food ai posti stellati, rari ma c’erano. Per
Mura era fondamentale gli apparissero veri, genuini e sinceri.
Era sempre il suo modo di vivere, informarsi e informare. Formidabile compositore di anagrammi, fece un giorno lontano notare come la parola guida cambiava in Giuda. Valeva anche per lui stesso, se uno non gradiva amici come prima. Che leggesse altri critici. Sempre a lui gli dobbiamo una feroce riflessione sul mondo del giornalismo sportivo e quello della critica enogastronomica: «Quando sono con i colleghi della gola non vedo l’ora di ritornare da quelli dello sport, ma quando sono con gli sportivi rimpiango presto quelli di cibo e vino». E’ un po’ come ricordare che “nessuno è re agli occhi del suo maggiordomo”.

Repubblica, nel suo sito, ha dedicato l'apertura alla scomparsa di Gianni Mura. Un solo neo: nel lungo sommario non è stato trovato spazio per ricordare la sua splendida e ultradecennale attività di critico enogastronomico nella stessa Repubblica. A conferma che questo mondo goloso è eternamente condannato alla serie B del giornalismo italiano
Di
Mura mi fa piacere ricordare che quando a inizio degli anni Novanta, io redattore al
Giornale, provai a scrivere un libro di racconti golosi, gli chiesi per ammirazione la prefazione: «
Paolino, te la scrivo ma ti avviso che poi non lo recensirò in
Repubblica, è la mia regola». Purtroppo non finii mai il libro. Conservo quel testo chissà dove, non sono per nulla ordinato. Però ricordo che scrisse di essere certo che in una eventuale tenzone tra cucina vera e cucina fasulla, mi avrebbe trovato al suo fianco nella difesa della più autentica qualità italiana, ma anche mondiale. Non viveva con i paraocchi e amava la tavola francese. Abbiamo perso un uomo vero.