12-08-2019

Viaggio nel Carso, selvatico e goloso

Andiamo alle scoperta di un'area magnifica e di alcune sue eccellenze. Prima puntata: Malcanton, Parovel e Zidarich

Il gruppo di lavoro del Gal Carso – Las Kras e i

Il gruppo di lavoro del Gal Carso – Las Kras e i consulenti che hanno lavorato al percorso per la realizzazione del Geoparco del Carso. Da sinistra Enrico Maria Milič, David Pizziga, Gregor Visintin, Klementina Koren, Benjamin Zidarich, Fabiana Vidoz, Barbara Razzini, Aleš Pernarčič nella cantina dell’azienda agricola Zidarich (foto di Claudia Bouvier)

"Ma nessun metereologo ti dirà, caro lettore, che la bora soffia dalle boccacce storpie delle streghe che vivono in fondo alle grotte carsiche, soprattutto nessuno ti dirà che la bora è il dio che ci ricorda, con la sua turbolenza imprevedibile, che i confini esistono solo sulla carta. Ogni frontiera ha un vento che la assilla. Ogni refolo, prima di aprirci la testa in due e fare uscire le nostre nevrastenie, ci ricorda che possiamo disegnare linee sulle mappe e mettere fili spinati nei boschi, ma non potremo mai dividere in due parti un vento". Non solo stream of consciousness, ultime sigarette e quella scontrosa grazia cristallizzata per sempre in uno degli ossimori più celebri della poesia italiana. L’hanno raccontata in tutti i modi, e mica scrivani qualunque. Ma nessuno prima d’ora aveva cavato fuori il nocciolo duro, letteralmente, l’anima selvatica di Trieste.

Il panorama dalla cantina Zidarich, con il Carso e il golfo di Trieste sullo sfondo

Il panorama dalla cantina Zidarich, con il Carso e il golfo di Trieste sullo sfondo

Per metterla a fuoco bisogna avventurarsi in una terra sconosciuta, forestiera, predisporsi all’incontro con gli orsi ed essere disponibili a perdersi. Avere piedi da viandante, insomma, da camminatori senza paura e preferibilmente senza rotta, come Luigi Nacci, autore di Trieste selvatica (volumetto per viaggiatori edito da un pugliese illuminato, Laterza, ristampato a soli due mesi dalla pubblicazione, per acquistarlo clicca qui), una traversata spazio-temporale in una terra sconosciuta, indagata con sguardo sghembo, laterale, puntuto, divertito e decisamente enciclopedico. Ma soprattutto centrato, sbam, dritto al cuore di queste lande di mare e di pietra. La fertile pietraia del Carso dove gemmano insospettabili occasioni golose, grazie a contadini, vignaioli, cuochi, allevatori e officine di promozione territoriale come il Gal Carso – Las Kras, che hanno trasformato una dannazione in risorsa, scoprendo d’avere proprio sotto i piedi un giacimento di bellezza inesausta. Mica brandelli di muri.

 

La bùsara, piatto tipico in carta all'Hostaria Malcanton

La bùsara, piatto tipico in carta all'Hostaria Malcanton

Alici, bùsera e jota (su richiesta) - Malcanton è parola composta che sta per canto malfamato, angolo gravido di malecose fatte da malagente (“...Vorrei dirti di osterie, bordelli, vie in cui gli artisti si sono mischiati a gente di popolo”, sempre Nacci, ndr). Così piacque all’ufficiale incaricato della toponomastica designare questo segmento urbano fra piazza Unità d’Italia e il parco della Rimembranza, una delle vie in cui di snoda l’intricato reticolo di strade che compone il centro storico di Trieste. Ricalcando quello, così Eugenio Deganuto ha chiamato il suo locale, Hostaria Malcanton (via Malcanton 10A, Trieste. Tel. +39 040 241 0719), cucina autoctona ma non necessariamente tradizionale, ovvero le materie prime sono quelle del luogo, i piatti attingono dal ricettario domestico, ma il cuoco Andrea Benedetti le riscrive a modo suo. Frutti dell’orto, ma soprattutto e innanzitutto mare. Hostaria Malcanton vuol dire pescato fresco, ovvero alici in tutte le salse, marinate o in savor (ricetta di marca veneziana diffusa in tutto l’alto Adriatico, alici fritte dunque servite con cipolla caramellata e uvetta), il baccalà mantecato o la bùsera, piatto forte di questi luoghi, una bisque di crostacei e pomodoro con cui si condisce la pasta lunga mentre in Croazia è prevalentemente un secondo. Con un po’ di preavviso e su richiesta al Malcanton si può gustare anche la jota (che è piatto terragno, dunque fuori carta), una monumentale zuppa di fagioli, crauti e pancetta, che detta così non sembra facile ma si manda giù più allegramente, e agevolmente, di una pagina di Joyce. Info: Hostaria Malcanton

 

Ulka, il monovarietale da Bianchera dell'azienda agricola Parovel

Ulka, il monovarietale da Bianchera dell'azienda agricola Parovel

L’evo da Bianchera  - Si chiama Ulka, che in sloveno vuol dire "oliva". Come chiamare un figlio, Figlio. Così, tautologicamente, è stata tenuta a battesimo quindici anni fa l’etichetta-gioiello di casa Parovel, la più longeva delle aziende agricole triestine, 26 ettari di terre equamente divisi fra vigne e oliveti. Fra quelle e questi si dividono le giornate dei fratelli Elena e Euro, ultima nidiata di cinque generazioni di Parovel, gente vocata alla terra dal 1898. La Bianchera, regina delle olive triestine, è ragazza di carattere: amara, piccante, zeppa di polifenoli, ha scelto un luogo impervio dove mettere radici, cresce solo fra Trieste e le terre d’Istria, sfidando il vento, le gelate invernali e le aridità delle rocce carsiche per vincere le quali ha cambiato genoma restituendosi al presente complessa, resiliente e miracolosamente elegante. Dalla Bianchera viene spremuto (a freddo) l’Ulka, monovarietale cent pour cent. «Si tratta dell’unica Dop del Friuli Venezia Giulia – spiega Elena - È un Presidio Slow Food entrato di diritto nell’arca delle cultivar da proteggere, diversamente rischiava l’estinzione visto che non ha molte possibilità di espansione e di crescita». Quando ottiene protezione, la natura solitamente ricambia, l’Ulka ne è riprova, elisir da oliva corazzato di gusto e proprietà nutraceutiche come certifica l’Università di Trieste che dai Parovel è di casa. Info: parovel.com

 

Zidarich

Zidarich

Il mare, la cantina sotterranea e il vitigno di confine - Benjamin Zidarich c’ha la testa da contadino fatto e finito. Somiglia alla pietra carsica, e come quella ha tenuto duro mettendo su, anzi giù, una cantina fiabesca, arroccata sulle colline di Duino, il mare dirimpetto: tutte le circonvoluzioni di cui la natura è capace in un solo colpo d’occhio, tramonto incluso. L’unico vino possibile, per lui, è naturale, l’unico vero, il resto sono chiacchiere da mercanti. È qui che cresce la sua Vitoska, antica come il tempo, a suo agio fra roccia e venti implacabili e salmastri. Uva regina a cui Benjamin Zidarich ha consacrato la vita costruendole un santuario interamente scavato nella roccia, una cantina profonda 20 metri e sviluppata su cinque piani complessivi, su una superficie totale di circa 1.200 metri quadri, costruita in ogni parte da maestranze locali. «È qui che avviene l’intero processo produttivo – spiega il vignaiolo - la zona invecchiamento dove è stato costruito un soffitto a volte in pietra, le aree adibite alla lavorazione e la sala di degustazione, collocata al livello più alto, dove attraverso grandi vetrate si gode di bellissima vista sulle vigne circostanti, che sfumano sul mare all’orizzonte”. Info: zidarich.it

(1, continua)


Dall'Italia

Recensioni, segnalazioni e tendenze dal Buonpaese, firmate da tutti gli autori legati a Identità Golose

a cura di

Sonia Gioia

Cronista di professione, curiosa di fatto e costituzione, attitudine applicata al giornalismo d’inchiesta e alle cose di gusto. Scrive per Repubblica, Gambero rosso, Dispensa

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