La maggior parte della produzione di vino in Ucraina si concentra nel sud-est del Paese, in zone regolarmente bersagliate dagli attacchi. Alcune si trovano addirittura a pochi chilometri dalla linea del fronte, dove i bombardamenti non si sono mai fermati.
Produrre vino oggi, dunque, significa sopravvivere, e per quanti hanno ancora accesso alle vigne, la routine è decisamente cambiata. Alla potatura si affianca ora un altro gesto quotidiano: camminare tra i filari ogni mattina per verificare che i droni russi non abbiano lasciato nuove mine. Eppure la produzione non si arresta fin dove è possibile, e diversi vini ucraini arrivano perfino sulle tavole d’Europa e degli Stati Uniti. Una parte, invece, viene distrutta sotto le bombe.
REGIONE DI MYKOLAÏV
Incontriamo Pavlo Magalias: è in uniforme, stanco, lo sguardo serio. Collegarsi in video con lui è l’unico modo per raccontare Olvio Nuvo, la sua cantina di famiglia nella regione di Mykolaïv. Raggiungerla fisicamente oggi è impossibile: troppo pericoloso.
«Gli ultimi giornalisti sono venuti due anni fa. Anche loro sono finiti sotto i bombardamenti. Non sapevo nemmeno come aiutarli», racconta Pavlo.

Il produttore Pavlo Magalias
La cantina si trova sulla riva destra del Liman. Di fronte, visibile a occhio nudo, si estende la lingua di terra di Kinburn, oggi controllata dalle forze russe. Le loro postazioni sono lì, oltre l’acqua.
Olvio Nuvo è una piccola azienda familiare costituita da dieci ettari di vigneti sotto tiro da quattro anni romai.
«All’inizio і russi ci colpivano con i lanciarazzi Uragan e Smerch; ora usano droni kamikaze e missili balistici. In una porzione di vigneto, i frammenti di un razzo sono ancora conficcati tra i filari. In un’altra, le viti sono state sradicate dalle schegge fino alla radice».
La produzione si concentra su sei etichette, tutte destinate al mercato interno, senza alcuna esportazione, nè possibilità di generare turismo. A tenere l'azienda in piedi sono gli ordini diretti, soprattutto da parte dei ristoranti ucraini, mentre una piccola parte del raccolto viene venduta ad altri produttori. Poche, anche le spedizioni postali, dal momento che inviare anche solo una cassa significa muoversi dall’entroterra verso la città, un tragitto che, in zona di guerra, può costare la vita.
«Prima della guerra vivevamo bene con l’enoturismo. Degustazioni, visite guidate, piccoli festival. A due passi da qui c’è la riserva archeologica di Olbia e in tanti venivano da tutta l’Ucraina, ma anche dall’estero. Ora, ovviamente, non resta più nessuno, né tantomeno sento di voler invitare qualcuno: sarebbe come mandarli in uno Squid Game».
Tra i vitigni a bacca bianca figurano il Johanniter, la Malvasia Bianca e un ibrido raro, il Muscat Citronnyj Magaracha, varietà resistente al freddo, con profilo aromatico agrumato e intenso. I rossi, invece, sono l'Odeskyi Chornyi e Bastardo, due uve locali poco note in Europa occidentale.
«Quando è iniziata la guerra, il primo pensiero è stato quello di proteggere le viti. Il vino per noi non è solo sapore, è identità. È un modo per dire che resistiamo ancora».
C’è mai stato un momento in cui Pavlo e sua moglie hanno pensato di lasciare tutto e trasferirsi in una zona più sicura?
Sorride appena Pavlo: «Sì, un giorno ho lasciato tutto. Ma per arruolarmi». Era l’autunno del 2022. La vendemmia era finita, il vino già in vasca. E lui è partito. 67ª brigata, comandante di compagnia. La gestione della cantina, così, è rimasta alla moglie che, sola, ha tenuto in piedi l'azienda mentre lui passava quindici mesi al fronte.
Dopo oltre un anno in servizio militare, è stato congedato per limiti d’età. Eppure il ritorno non ha significato una tregua. Ex militare specializzato in sminamento, il fondatore di Olvio Nuvo ha ripreso in mano la cantina partendo da ciò che la guerra aveva lasciato: filari crivellati, ordigni inesplosi, frammenti di razzi conficcati nel terreno. «Ho perso il conto delle mine trovate tra i filari», racconta.
Tornare al vino, in quel paesaggio, significava bonificare. Letteralmente. Nel 2024, nonostante tutto, la cantina ha lanciato una nuova linea a base di Rkatsiteli, un vitigno georgiano piantato prima dell’invasione. Per chi lavora presso la cantina Olvio Nuvo, è stato come ripartire da zero: «Una seconda nascita».
LA FINE DI CHÂTEAU TRUBETOSKOY: SOLO QUATTRO BOTTIGLIE SOPRAVVISSUTE
Dove le strutture sono rimaste intatte, la produzione, quindi, continua. Ma ci sono realtà che non hanno più nulla: né viti, né mura.
«I nostri vigneti sono ancora minati. Nel terreno sono disseminati frammenti di missili russi. Lo Château, un edificio storico, è gravemente danneggiato e non è più operativo», racconta Serhii Parkhomchuk, direttore marketing di Château Trubetskoy, storica cantina fondata nel XIX secolo e tra le più antiche d’Ucraina.

Lo storico Château gravemente danneggiato dai bombardamenti russi
Lo stabilimento si trovava sulla riva del Dnipro, a soli 800 metri dalla centrale idroelettrica di Kakhovka, anch’essa oggi inesistente. La città più vicina è stata evacuata, le case in gran parte danneggiate o rase al suolo. «È praticamente la linea del fronte. I bombardamenti qui non si sono mai fermati», prosegue Parkhomchuk.
Dall’inizio dell’invasione russa, fino a novembre 2022, la cantina è rimasta sotto occupazione. Tutto è stato saccheggiato: non solo le attrezzature, ma anche una collezione unica di vini conservati dal 1958, migliaia di bottiglie destinate alle generazioni future. Ora i vigneti non sono più coltivati e anche il magazzino secondario, situato a Hostomel, nella regione di Kyiv, è stato colpito da un frammento di razzo.

Le quattro bottiglie sopravvissute di Château Trubetskoy
«Lì conservavamo circa quarantamila bottiglie con la nostra etichetta. Ahimè, ne sono sopravvissute soltanto quattro. Abbiamo provato a ricomprare qualche bottiglia nei negozi sparsi per il Paese e al massimo ne abbiamo recuperata una cassa e mezza. Quelle che abbiamo, le conserveremo per esibirle in un museo, un giorno».
Col tempo, abbiamo maturato un'ulteriore decisione: cambiare nome. Una scelta simbolica.
«Il principe Trubetskoy? È un'eredità imperiale, è stato lui a fondarla. Ma oggi quel nome non ha più posto qui», spiega Serhii. Ecco perchè adesso parliamo di STOIC Winery, un cambio d'immagine.
Non c’è più lo Château, è vero, ma quello che ne è rimasto, dopo tutto, sono le persone: la squadra. L’obiettivo è ripartire, continuare a crescere.
Nel 2024 la nuova etichetta ha prodotto 15.000 bottiglie, e si punta a mantenere lo stesso livello anche quest’anno. Attualmente il vino viene vinificato presso una cantina partner nel distretto di Izmail, al confine con la Romania e la Moldavia, una zona relativamente più sicura, anche se non del tutto al riparo. Tra i bianchi, parliamo di Pinot Blanc, Chardonnay, Merlot e Riesling, mentre tra i rossi, Cabernet Franc e Merlot, gli stessi vitigni coltivati nei terreni originari di Trubetskoy e oggi presenti nel portfolio di STOIC Winery.

La nuova vita di Château Trubetskoy, Stoic Winery
2.500 bottiglie sono già state esportate negli Stati Uniti.
«Non si tratta solo di vendere. Per noi il vino è soprattutto dignità. Dopo tutto quello che è successo, vorremmo che il nostro lavoro parlasse anche al di là dell’Ucraina, per comunicare che ci siamo ancora, che esistiamo, e che non ci siamo arresi».
MY WINE: IL SOGNO CHE RESISTE
La cantina My Wine, situata nella regione di Odesa, ha conquistato per il suo Chardonnay Reserve la medaglia d’argento al Decanter World Wine Awards 2024, uno dei più prestigiosi concorsi enologici al mondo, organizzato ogni anno a Londra. Già nel 2023, lo Chardonnay 2021 viene premiato con un argento al Mondial des Vins Blancs Strasbourg. E nel 2025, ancora un’altra soddisfazione: il Sukholymanskyi Bianco, raro vitigno autoctono della medesima area, ottiene la medaglia di bronzo, sempre al Decanter.

Per la cantina My Wine, tra le tante soddisfazioni in tempo di guerra, anche la medaglia di bronzo con il Sukholymanskyi Bianco, un raro vitigno autoctono, al Decanter World Wine Awards 2025
Dietro questo successo non c’è un grande gruppo industriale, né una proprietà storica tramandata nei secoli. C’è Eduard Gorodetsky, 45 anni, giovane produttore con un passato da tecnico e dirigente nel settore enologico. «Sono un viticoltore di quarta generazione per parte di padre, ma non ho ereditato nulla», racconta, «se non l’amore per il vino e le competenze apprese lavorando».
Per vent’anni, infatti, Eduard lavora nell’enorme impianto dell’ex stabilimento destinato alla produzione di cognac a Odesa, crescendo passo dopo passo: da lavabarili diviene direttore generale.

Il giovane produttore Eduard Gorodetsky della cantina My Wine
Poi, un giorno, il colpo di fulmine. «Visitando alcune cantine in Francia, ho capito che il mio sogno era creare qualcosa di mio. Intimo, autentico, vero».
Si licenzia. Compra l’edificio fatiscente di una vecchia cantina abbandonata da oltre sessant’anni e inizia a ristrutturarla. Oggi la struttura, uno Château, è pronta al 70%: ci troviamo a Roksolany, un villaggio immerso nella storia perchè proprio qui sorgeva l'antica colonia greca di Nikonion, dove si produceva vino già in epoca classica. Non è raro, infatti, trovare frammenti di anfore antiche tra i filari.
«Il posto è incantevole, o meglio, lo sarebbe davvero se non fosse per i bombardamenti». La zona è considerata ad alto rischio. «I missili russi cadono spesso. Per questo non ho ancora il coraggio di completare la ristrutturazione».
Oggi Eduard produce il vino in affitto, presso la cantina di amici, sempre nella regione di Odesa. Non ha ancora i suoi vigneti, ma lavora con varietà internazionali e locali: Chardonnay, Pinot Noir, Cabernet, Merlot, accanto a ceppi autoctoni ucraini come Odeskyi Chornyi e Sukholymanskyi. E poi un omaggio personale: il Rkatsiteli, vitigno georgiano introdotto in Ucraina da suo padre.
«Nel 2024 abbiamo lanciato una nuova linea proprio a base di Rkatsiteli».
Oggi i vini My Wine arrivano fino in Giappone, Danimarca ed Estonia. Eduard ha tre figli, e il maggiore, di dieci anni, prima della guerra lo seguiva ovunque: vendemmie, cantine, processi di produzione. Oggi la distanza è inevitabile.
«All’inizio dell’invasione russa ho portato i bambini in Moldavia, poi si sono trasferiti in Spagna. Ma io non voglio vivere altrove. Voglio solo restare qui, in Ucraina, e fare il mio vino. Magari, un giorno, con mio figlio accanto». Una determinazione che resiste alla paura. «Certo, a volte mi sento terrorizzato. Ma questa è la mia vita, il mio sogno, la mia terra».
In Ucraina, il vino continua a nascere nonostante il rischio dei viticoltori di morire tra i filari.
Non è solo produzione. È resistenza quotidiana. È il desiderio ostinato di restare, coltivare, tramandare. E se un giorno vi troverete davanti un’etichetta ucraina, ricordate che è stata fatta da chi ama la viticoltura più della propria vita.