Contro la globalizzazione del gusto moderno, contro la massificazione delle abitudini alimentari, lode ora et semper allo squisito lampredotto fiorentino. Specialità che è intanto golosissima, poi anche pura identità territoriale, dunque radice culturale che si dipana attraverso la gastronomia. Da preservare quindi con cura.
“Il trippaio è davanti al suo carretto: fuma nella vaschetta il lampredotto appena bollito; gli si affollano attorno i garzoni del quartiere col pane croccante tra le mani, per la prima colazione: si puliscono le dita sul fondo dei calzoni per fornirsi un pizzico di sale”.
Così Vasco Pratolini nel suo romanzo Il Quartiere racconta Santa Croce a Firenze, caratterizzandola proprio per la presenza dei venditori di questo boccone eccellente, un quinto quarto per la verità, ossia piatto povero della tradizione basato com'è sul primo dei quattro stomaci dei bovini, l’abomaso.
C'è tutta una storia dietro. Perché quella dei trippai era - tre le cosiddette minori - una delle arti più significative nella Firenze medioevale per quanto riguarda il settore delle carni (e non erano poche! C'erano anche gli agnellai, i pollaioli, i barulli trecconi e strascini - ossia venditori ambulanti di residui della macellazione -, i frattagliai e i testai, che potevano trattare solo le teste degli agnelli). Era ovviamente seconda a quella dei macellari, i quali avevano le loro botteghe sul Ponte Vecchio dal quale scaricavano i residui della lavorazione direttamente nell'Arno. In base a questa rigida suddivisione, solo i trippai potevano commercializzare le trippe acquistate dai macellari e venderle nelle botteghe o da ambulanti, dopo averle pulite e bollite.

Dunque la città era - e in fondo è ancora oggi - tutto un pullulare di venditori e mangiatori di nervetti, trippe, cervelli, poppe... E ovviamente anche di lampredotti, parte che si cucina praticamente solo qui, altrove è puro scarto: è più scuro, spesso e grasso rispetto alla trippa bianca. Finiva (e finisce) per essere gustato come street food del pranzo e della merenda, accompagnato da salsa verde, tra due fette di pane caldo e sciapo, la cui superiore imbevuta dal saporito brodo caldo di cottura del lampredotto stesso; oppure in un'altra versione molto amata dai fiorentini, quella cosiddetta
in zimino, ovvero in umido con verdure a foglia, generalmente bietole.
Nell'uno e nell'altro caso, una bontà. E che il lampredotto sia stato sempre considerato, nei secoli, una leccornia - seppur popolana - lo si capisce persino dal suo stesso nome: pare derivi infatti dalla lampreda, ossia il pesce di fiume del quale l'Arno era molto ricco e che era considerato un cibo da gran signori. Così definire un quinto quarto "lampredotto" significava nobilitarlo, paragonarlo al nobile boccone ittico.
Oggi la lampreda non sapremmo più dove ordinarla; il lampredotto lo si gusta, oltre che presso gli ultimi lampredottai ambulanti, nei locali di Firenze più legati alla storia culinaria cittadina; e tra questi non possiamo che annoverare la Trattoria da Burde, "dal 1901 a Firenze", uno degli Esercizi Storici Fiorentini più famosi e longevi, fondato all'inizio del secolo scorso come rivendita di generi alimentari (compie 120 anni proprio dopodomani, il 2 maggio. Auguri!).
Da allora quattro generazioni della famiglia
Gori si sono passate il testimone, facendo evolvere la bottega prima in enoteca con piccola cucina e oggi in avamposto della tradizione gastronomica toscana, con una grande carta dei vini. Merito dei due fratelli
Andrea e
Paolo Gori, sommelier poliedrico il primo, chef con una laurea in Scienze Politiche che voleva fare il contadino il secondo, erede in cucina degli insegnamenti della nonna e appassionato cultore di paesaggi - e passaggi - gastronomici che rischiano di venir meno: «Se un piatto smetti di mangiarlo, è morto. Se non lo sai più cucinare, se non lo puoi più replicare, è come se fosse un animale in via d’estinzione. Scompare».

Paolo Gori e il Lampredotto inzimino
Parliamo qui del
Lampredotto inzimino del
Da Burde intanto perché è buonissimo. Poi perché i
Gori da fine marzo lo offrono tra le nuova proposte di
Bonverre, linea di pietanze sempre più ricca, preparate da chef di grido, cotte in vaso e vendute pronte all’uso (online sul sito
www.bonverre.it, su
www.atmosferaitaliana.it, e nei rivenditori selezionati in tutta Italia).
Ma perché
Da Burde ha pensato proprio al
Lampredotto inzimino per
Bonverre (le ricette con questo quinto quarto sono tante, in inverno è proposta ad esempio la
Minestra con brodo di lampredotto, cavoli e riso)? La ragione è semplice: le ricette in zimino (o "in inzimino" che dir si voglia, entrambe le grafie sono corrette) sono parte della tradizione toscana. Si basano su un umido di una componente proteica insieme a foglie verdi che variano (bietole, spinaci, cavolo nero...), poi prezzemolo, aglio e aromi. "Zimino" deriva dall’arabo
samīn, ossia "grasso, burroso": in realtà le ricette non sono affatto pesanti - e tantomeno nelle versioni riviste con sapienza da
Paolo Gori - ma certo di gran personalità, saporite, golose. In zimino si cucinano i legumi, le seppie, alcuni pesci e a Firenze appunto anche il lampredotto, che
Da Burde vuole con cavolo nero, pomodoro, peperoncino, aglio e abbondante salvia. Tre osservazioni interessanti: 1)
Gori preferisce la salsa al concentrato di pomodoro, per dare al piatto una certa acidità che bilancia l'untuosità del lampredotto; 2) i condimenti ricordano da vicino quelli del cacciucco, siamo in piena toscanità; 3) il
Lampredotto inzimino è forse l’unico piatto piccante a Firenze, dove questo gusto ha poca cittadinanza. In questo caso, è però anche cremoso, tenero, profumatissimo, magari abbinato a qualche fetta di pane abbrustolito. Un grande assaggio di storia.
Ed ecco la ricetta del Lampredotto inzimino di Da Burde.
LAMPREDOTTO INZIMINO
Ricetta per 4 persone
Ingredienti
1 kg di abomaso (trippa per lampredotto) lessato
500 g di pomodori pelati
100 g di olio extravergine d’oliva
3 spicchi d’aglio
3 rametti di salvia
500 g di cavolo nero
500 g di bietole
1⁄2 l di vino rosso
Peperoncino q.b.
Pepe q.b.
Pane toscano, per servire
Procedimento
In un tegame capiente preparare la base aromatica. Aggiungere abbondante olio, la salvia, l'aglio schiacciato per aumentarne i profumi, il pepe e il peperoncino. Lasciare su fuoco bassissimo e coprire affinché gli aromi rimangano all'interno. Nel frattempo tagliare il lampredotto a listarelle. Una volta fatto, aggiungere il lampredotto al tegame e alzare la fiamma: lasciarlo insaporire mentre si tagliano finemente le verdure. Il cavolo nero deve essere privato della costola dura centrale.
Quando il lampredotto inizia ad attaccarsi e a abbrustolirsi, sfumare con il vino rosso. Una volta evaporato l'alcool aggiungere il pomodoro. Quando il liquido si sarà ridotto aggiungere prima il cavolo nero e, quando questo inizierà ad ammorbidirsi, le bietole. Da questo momento cuocere a fuoco basso per mezz'ora o quaranta minuti, assaggiare verso metà cottura per aggiustare eventualmente di sale. Il lampredotto è pronto quando risulta ancora molto cremoso, anche leggermente liquido a seconda dei gusti. Servirlo in un tegamino, in una ciotola di terracotta o in altro piatto rustico, accompagnato da pane toscano tostato e condito con olio d’oliva.