«Per me sempre fatto provare cose». Ossia, in nippo-italiano, “il piacere della sfida, l’adrenalina di mettersi in gioco, l’eccitazione che deriva dall’imbarcarsi in nuove avventure”, avevamo scritto qui nel gennaio 2015, nell’annunciare – con le nostre e le sue parole - la imminente apertura del ristorante milanese di Yoji Tokuyoshi. A svariati mesi di distanza, la sfida può dirsi vinta: non solo genericamente perché al Tokuyoshi “si mangia bene”, che è peraltro condizione necessaria e sufficiente. Ma c’è dell’altro: l’ex sous chef di Massimo Bottura prosegue determinato sulla via interessantissima di proporre un suo stile personale di cucina, per molti versi inedito e certamente senza eguali in città, «cucino italiano col 100% dei prodotti locali. Però il modo di presentare i piatti, le tecniche di cottura, la filosofia sono le mie. Sono un ibrido». Non che si faccia beffe della nostra tradizione, ma le regala diverse prospettive: estatica jap, sapore tricolore. Si libra spensierato tra due culture gastronomiche vicine e distantissime, cercando un chimerico equilibrio. Sembra, appunto, averlo trovato.

Per lui «l’antica scuola giapponese prevede il massimo rispetto per gli ingredienti, che danno vita a sapori limpidi, come l’acqua. Nello stesso tempo, la tradizione italiana rappresenta la terra, perché ha le sue radici connesse a ogni territorio». Non sorprenda, quindi, che la cucina di
Tokuyoshi preveda un’inedita, raffinata armonia tra i due elementi. Ogni piatto incorpora una parte liquida – un brodo caldo, un succo freddo, un estratto - che resta distinta sulla tavola, in una tazza a parte, ma rimanda alla gestualità giapponese: «Raccomandiamo a ogni nostro ospite di sorseggiare la parte liquida tra un boccone e l’altro», ci spiega il sommelier
Alfonso Bonvini. Come nello
Sgombro “Gyotaku”, parola che non esiste nella tradizione culinaria nipponica, e che indica piuttosto la stampa dell’immagine di un pesce. «Noi riprendiamo quest’usanza “stampando” sul piatto lo sgombro, e poi arricchendolo con mousse di capesante, limone, zest di mandarino, finocchietto selvatico e nero di seppia».
E' stato uno degli assaggi iniziali di una cena davvero affascinante, e che aveva già previsto alcuni appetizer-bomba, come la straordinaria Piadina con burrata, riccio di mare e salsa di plancton, capace di creare dipendenza quasi quanto quel burro servito all’inizio (che solo burro non è: burro nocciola, mascarpone e yogurt greco) da spalmare sull’ottimo pane di lievito madre, con succo di ciliegia come starter. Così buono da suggerire a Tokuyoshi anche Pane burro e alici, dove il burro è sempre quello ma il pane è al vapore, alla giapponese. Primi assaggi che già rivelano la formula di fondo: con gli amuse bouche un brodo di verdure di scarto, con la piadina un brodo di patata arrosto, con lo sgombro un latte di pinoli.

Anguilla laccata all’aceto balsamico di Modena, salsa di carpione, polvere di verdure disidratate
Il passo successivo è straordinario:
Anguilla laccata all’aceto balsamico di Modena, salsa di carpione, polvere di verdure disidratate (barbabietola, carota e cavolo viola): la rappresentazione è splendida, l’eco emiliano viene amplificato dal brodo di accompagnamento, “via Emilia”, ottenuto per infusione di mortadella, cappone, Parmigiano Reggiano e prosciutto crudo.
Il richiamo territoriale non si ferma però alle zone che Yoji ha ben conosciuto nei suoi nove anni all’Osteria Francescana: si va in Sicilia con Omaggio a Noto, ossia spaghetti Mancini la cui cottura è terminata in un latte di mandorle, poi vongole, pistacchio e polvere di caffè con grappa di Frappato di Arianna Occhipinti aromatizzata al cappero. A dirla tutta, il condimento risulterebbe in bocca fin troppo concentrato, denso se non arrivasse in soccorso la meraviglia dolce-acida e aromatica di un estratto di olive verdi e acqua di pomodoro, in assoluto il miglior sorso di tutta la cena, assolutamente da manuale.

Maialino da latte coperto di foglie disidratate con foglie di pane aromatizzato agli spinaci
Tale è anche ormai
Fake risotto alla milanese, uno dei primi piatti proposti in via San Calocero e che avevamo già assaggiato: ha raggiunto il proprio equilibrio definitivo e convincente, i chicchi di sedano rapa legati come fosse un risotto e sopra un katsuobushi ottenuto con film di riso e zafferano (abbinato a un sakè di riso integrale con brodo di shitake e carne). Emblematico di questo abbraccio tra Italia e Giappone è poi la
Chips di cipolla con cervo dell’Appennino tosco-emiliano e wagyu di Totori, dove
Tokuyoshi è nato: un piatto nuovo – e che testimonia una raggiunta armonia, un piglio ormai sedimentato e controllato – come pure nuova ed equilibrata è l’
Anatra invernale con furikake, il suo ristretto, rapa rossa cotta alla griglia, scorzonera, il fegatino con chips di cacao croccante, il tutto con succo di frutti di bosco da bere. In mezzo c’era stato il
Maialino da latte coperto di foglie disidratate con foglie di pane aromatizzato agli spinaci e succo di ciliegie e rabarbaro, che riprende esteticamente quell’
Ossobuco vestito d’inverno del quale avevamo
parlato non entusiasticamente in passato: invece qui è del tutto convincente, come la successiva
Coppa di testa e gnocco fritto.
Si chiude coi dessert, come spesso capita un gradino sotto il resto: Panna cotta al sapore di melanzana, con granita di limone e squaquerone grattugiato, e il nuovo Monte Rosa. Anche qui richiama visivamente un piatto dello scorso anno, Cemento e Terra: ma quello era più rigoroso, cerebrale, questo più goloso e zuccherino: base di pan di Spagna, crema di castagna, tartufo, gelato di mela cotogna, mele della Valtellina, cialde di rapa rossa.