Vi avevamo già parlato di Miro Osteria del Cinema a Milano: cotture dirette, classici e tanta contaminazione - la cucina di Vincenzo Artadi ci aveva conquistati così.
Assieme a lui, in sala, Andrea Vignali e Daniele Rosa, dispensatori di calici azzeccati e di quella lieta compagnia che mette voglia di tornare, perché con le giuste attenzioni, senza eccessi e con suggerimenti ragionati, riescono a rendere Miro un luogo dove lo "spazio tavola" è sacro, ed è l’ospite il vero protagonista, concetto, quest’ultimo, solo apparentemente scontato.

I due soci Andrea Vignali e Daniele Rosa
Tutto sembrava già succulento così, ma è bastato un anno per dare nuova linfa al locale situato all’interno del cinema Anteo in Piazza XXV Aprile, custode tra le varie cose di un cortile meraviglioso, e quel silenzio surreale che l’avvolge, interrotto tutt’al più da arie e cori che si elevano dal vicino Conservatorio.
Intanto, ogni domenica, finché il sole lo consentirà, è proprio il cortile ad ospitare l’appuntamento de La grande abbuffata, un brunch da Oscar in collaborazione con Stefano Guizzetti di Ciacco, gelateria e pasticceria, che Artadi stima particolarmente: «Da quando sono a Milano mi sono sempre intrufolato nel laboratorio di Stefano e ogni volta c’è sempre così tanto da imparare; un professionista in gamba, di cuore e soprattutto una persona incredibilmente umile». Ed ecco che la tavola di Miro si lascia inondare dalla viennoiserie di Ciacco, il suo flan generoso di vaniglia, sfogliati farciti di ogni bontà salata, mentre Miro cura una selezione di piatti caldi a scelta e altre delizie da godersi nella calma più totale.
C’è poi un ulteriore filone, introdotto questa estate e che presto lascerà spazio a una nuova trama (... è tempo di bollito!); una traccia che permette di investigare a fondo la materia, senza porsi troppe restrizioni, indirizzando la creatività con efficacia e zero sprechi. Nasce con questo intento il menu Brace: un’ampia selezione di piatti sigillati da sentori affumicati più o meno tenui, che non vanno a coprire l’ingrediente, ma al contrario lo fanno vibrare, rimarcando la precisione delle cotture e di un aspetto, quasi del tutto inatteso, che è emerso nel corso di una cena al Miro.

Anatra, 'nduja, millefoglie di bieta
Le origini di Vincenzo, le conosciamo: Perù, che però si mescola a quella Roma che lo ha visto crescere, proiettandolo una volta e per sempre - almeno per adesso - a Milano. Ora proprio di quel Peru, Vincenzo conserva una certa familiarità con tonalità piccanti che lungo l’intero percorso si manifestano in una maniera sempre inedita, di concerto a un contesto gustativo vario: non c’è infatti solo il ceviche. C’è l’India di un Biryani, o la ‘nduja calabrese. Ci sono soprattutto delle ottime idee che trovano consistenza nei piatti, alcuni dei quali applaudiamo particolarmente.
Partiamo proprio dal Biryani: il nostro immaginario ci porta davanti a un pollo fumante, generosamente speziato, e invece la miscela di aromi va a irrobustire uno spaghetto aglio e olio. Una pasta “dall’anima candida” che offre una masticazione complessa, ma piacevolissima distraendo dal primo impatto con le spezie dalle quali, poi, il palato è invaso; quindi, a poco a poco, torna l’essenza tutta italiana di una aglio e olio.

Funghi misti, creste di gallo, fondo vegetale
Una spinta accesa spezza anche la dolcezza terrosa di un fondo di barbabietola, la base vegetale di un trionfo di funghi, quindi, finferli, cardoncelli e porcino, crudi e cotti, carnosi, intervallati dalle creste di gallo, e tutta la loro callosità. L’aji amarillo di un ceviche, una salsa ‘nduja nella quale intingere bocconi di anatra alla brace, al rosa. Eppure mai il palato risulta affaticato, trovando equilibri nella componente vegetale – come quella di una millefoglie di bieta – che resetta il palato stesso e lo prepara alla portata successiva.

Il crudo: Ceviche di ricciola, leche de tigre, passion fruit, aji amarillo
Prima, quindi, c’erano degli ottimi piatti, ma poco teneva insieme il quadro nella sua completezza che, invece, adesso vede ogni singola tessera al proprio posto, restituendo un’immagine più matura della cucina di Artadi, che spinge, senza mai affaticare il palato, così da giungere sereni a un ulteriore momento epico di un pasto all’Osteria del cinema: il dessert.
Saranno state quelle incursioni a “casa” Guizzetti, ma Artadi mostra una particolare abilità nel fine pasto, andando a colmare quell’immenso vuoto che quasi sempre troviamo al termine di un’ottima cena al ristorante: un dolce concreto, bilanciato, che dia piacere intenso.
Senza scendere nel trascendentale: qui si servono torte da credenza – delicatissima quella alla pesca, umida il giusto, profumata; o uno Choux – da perdere la testa - alla crema diplomatica, conservando quel sottile croccante, senza lasciarsi inumidire dalla crema, corposa, ricca di vaniglia, chantilly e panna insieme. Sorrisi e calici in perfetta armonia con i piatti: l’osteria del futuro noi la immaginiamo così.