"Perché Entroterra?"
Si esordisce così al principio della seconda edizione di un progetto che dà voce a quel che vive oltre la costa; le persone, i paesaggi, le colture e la cultura dell’entroterra. Che non è poco e oggi vi raccontiamo perché.
Tutto ha inizio da una mente illuminata, che l’entroterra lo respira da quando vi è nato: Cristian Torsiello, chef trapiantato a Capaccio Paestum all’Osteria Arbustico, non ha mai staccato le sue radici da Valva, il suo paese di origine, lì dove oggi stanno crescendo i suoi figli e dove nel 2015 riceve la prima stella che ancora conserva negli spazi dell’Hotel Royal sulla costa cilentana.

Cristian Torsiello, chef di Osteria Arbustico, una stella Michelin a Capaccio Paestum (Salerno)
Ora parliamoci chiaro: Valva non è Paestum, come non lo è Colliano, appena una manciata di chilometri distante; non lo è Taurasi, in Irpinia, terra d’Aglianico e dei suoi nettari memorabili. E non lo è neanche l’intera dorsale appenninica, con tutti i centri abitati che su di essa si arrampicano… Eppure nessuno tra questi può essere ignorato.
Entroterra: paesi operosi, che nel migliore dei casi si lasciano conoscere perché depositari di tesori enogastronomici straordinari. Senza considerare, però che al di là di quel prodotto, vive una comunità, concentrata, attiva, perseverante e soprattutto presente: sì, c’è chi abita l’entroterra, chi ne conosce le sfide e ne fa il pane quotidiano su cui spalmare le fatiche. E così, se per un visitatore risulta meta ideale su cui puntare un paio di volte all’anno, per chi resta l’entroterra dura 365 giorni. Uomini che investono per pompare ossigeno in territori che, altrimenti, si svuoterebbero di vita e di anime, e così imparano a coltivare mestieri, a custodirli, a stimolare l’ingegno grazie all’ostacolo. Ad alimentare il futuro.
Sono le famiglie a diventare impresa, unendo forze e capacità, come un microcosmo le cui risorse vengono ottimizzate all’ennesima potenza; aziende che, pur di evitare sperperi di risorse, accentrano più funzioni in poche figure - quasi sempre legate da un vincolo famigliare -, e morigerano la produzione a costo di crescere qualitativamente prediligendo in tutto e per tutto la filosofia del poco ma buono.
A sostenerle, però c’è la natura con la quale sono stati in grado di instaurare un dialogo sincero, individuandone i limiti e isolando i rischi che corre. Lo sa bene la famiglia Gugliucciello, impegnata nella caccia e nella trasformazione del tartufo (ma anche di funghi) nei territori del Monte Marzano: generazioni che si alternano e con esse una sensibilità, che si trasferisce di padre in figlio; qui dove non si conoscono nebbie abbastanza fitte, i freddi intensi dell’alba, momento ideale per inoltrarsi nella ricerca del fungo ipogeo che ha una sua stagionalità e, infatti, proprio ora sta per concretarsi lo scenario più atteso.

Le mazze di tamburo nei boschi di Colliano (Salerno): come preparale? Lo suggerisce la seconda generazione della famiglia Gugliucciello: cuocerle in padella assieme alle classiche fettine; il fungo assorbirà gli umori della carne e grazie alla sua consistenza, sarà facile confondere il boccone dell'uno e dell'altra
Ma lo sanno bene anche i cuochi. In particolare quelli che riescono a cucinare senza essere sempre al corrente degli ingredienti disponibili al tavolo di lavoro, né del numero preciso di ospiti attesi; cuochi che possono fare a meno di tanta tecnologia e tirare comunque fuori un pasto memorabile: solo testa e fuoco.

Il duo Tomei/Torsiello nei boschi di Colliano
É stato questo l’assist che Torsiello ha servito al suo amico e collega Cristiano Tomei, chef del ristorante L’Imbuto a Lucca, presente a Entroterra per il secondo anno consecutivo.

Pecora, cotta lentamente, sotto cenere: "la vera cbt"
Lo incontriamo. Sta lavorando dal mattino e di ore di sonno in corpo ne ha solo 3. Ma intanto taglia i porcini appena raccolti (che in Toscana vanno a nozze con tanta nepitella, come ci racconta proprio Tomei, ndr), mentre zucche e cipolle fondono, scaldate dal calore della brace; una trippa in umido, rossa e una pecora che va lentamente. Terra, carboni e cenere, a rammentarci quanto il tempo sia in grado di restituire in termini di gusto e consistenza se solo impariamo a portare pazienza.
Ed ecco che tra fumi fragranti e sorsi spensierati emergono verità che non possiamo ignorare: innanzitutto, «la cucina è un atto culturale» inizia Tomei e in quanto tale, attivo, vivo e in costante evoluzione; la cucina, poi, non è affatto una cosa semplice; al contrario, è proprio questo presunto concetto di “facilità” che le si associa a scoraggiare la sopravvivenza di realtà fuori dai circuiti più noti, a indebolire il ruolo della tradizione, come se meritasse nient’altro che un pubblico di serie B.
E, invece, perché si inneschi una lenta ma efficace rivoluzione, occorre interrogarsi sul presente e solo poi immaginare il futuro; ravvivare gesti dimenticati, focalizzandosi sulla sostanza del piatto, senza “immaginare una ricetta con 20 pomodori, ma piuttosto saperne scegliere uno, cuocerlo come si deve e conservarlo correttamente”.
Inoltre, non si può non pensare alla ristorazione come un mondo a sé stante o di puro piacere, ma intrinsecamente legato a produttori, artigiani, costruttori, tutti parte di un’unica economia, le cui interrelazioni originano un profondo senso di comunità.
E dal punto di vista della comunicazione?
Abolire qualsiasi tipo di narrazione artificiale e soprattutto far sì che non sia quest’ultima a modellare una cucina che, in realtà, non esiste. Perché se davvero cucina equivale a cultura, è nella condivisione di vecchi forni di paese, nella capacità di prendersi cura del poco che si ha per farlo fruttare, un progetto destinato a durare, ecco, in tutto questo è il seme del futuro.
Non è “passato” coltivare i propri ortaggi, non è una tendenza evitare sprechi, ma necessità, pensiero, economia, al punto che - come sottolinea Mirko Balzano, chef e consulente di solide origini irpine - le rimanenze sono persino più preziose della materia originaria, sfuggendo quel modello sociale in cui la reperibilità di un ingrediente è pressoché illimitata - soprattutto nelle grandi città – diluendo gradualmente l’identità dei luoghi, delle persone e, di conseguenza, di un piatto.

I mugliatielli, che in questo caso, per la farcia, hanno onorato la ricetta di Grottaminarda (Avellino), vale a dire zero parti sanguinolente a favore di animelle, uova e aromi, ìcome ci spiega lo chef irpino Mirko Balzano
Ora, sarebbe un errore credere che questa via sia da escludersi in un ristorante stellato purché quest'ultimo si sforzi di interagire con l’esterno diventandone parte, sincronizzandosi con natura, persone e territorio, senza mai perdere di vista il motivo per il quale un cuoco entra in cucina ogni giorno: fare cultura, certo, ma anche saziare le persone offrendo loro qualcosa di buono, educarle a un’alimentazione che nutre e non illude.

Strepitoso piatto vegetale a cura di Cristian Torsiello: la Zuppa di cime di rapa e latte di provola
Tutto questo è Entroterra. Il resto è scritto nei luoghi in cui vive.
E ora alcuni scatti dai nostri giorni a Entroterra, che si è svolto tra il 6 e il 9 ottobre in Campania.

Fuoco e brace, l'origine di un pranzo memorabile a cura di Cristian Torsiello, Mirko Balzano, Davide Filadoro e Lello Tornatore negli spazi della Cantina Antonio Caggiano a Taurasi (Avellino), in Irpinia

Zucca alla brace e la sua polpa affumicata arricchita da burro di manteca, tartufo nero, achillea (la "mamma" della carota selvatica), scorza di limone, pecorino e aceto. Una piccola "porzione" della cucina spontanea di Cristian Torsiello e Cristiano Tomei

La prima cena di Entroterra 2024 al Castello Marchionale di Taurasi (Avellino): presenti all'appello, Cristian Torsiello, Arcangelo Gargano, Stefania di Pasquo, Paolo Barrale, Bobo Cerea, Tomaz Kavčič e Carmen Vecchione, assieme a uno straordinario gruppo di collaboratori di sala e cucina

L'aglianico ormai prossimo alla vendemmia nelle vigne di Cantina Antonio Caggiano a Taurasi, in Irpinia

Bottone fondente, verza e salsa di acciughe di Cristian Torsiello

Il torchio comune di 300 anni custodito a Taurasi nella Cantina di Antonio Caggiano