Fuoco e acqua, mito e memoria. Così ho raccontato la Sicilia vulcanica al Worldcanic di Lanzarote, onorato ed entusiasta di questa colta e sofisticata, ma allo stesso tempo gioiosa e coinvolgente occasione di confronto con colleghi che, come me, si misurano con la complessità e la ricchezza di territori pieni di contraddizioni.
Le sciare laviche e le profondità marine, la memoria familiare e la tradizione popolare sono le chiavi che ho scelto per rappresentare il mio, di territorio, con la sua moltitudine di vulcani - non appena l’Etna -, che così potentemente ci affascinano e si accordano all’animo spesso imprevedibile e prorompente di noi siciliani.
L’ho fatto con due piatti che fanno parte del menu invernale di Accursio Ristorante, per sottolineare il fatto che la narrazione di questo aspetto del paesaggio siciliano, che coinvolge la natura, i prodotti agricoli e il gusto, fa abitualmente parte del nostro modo di rappresentare la Sicilia a chi sceglie di conoscerla attraverso la cultura del cibo.

L’Arancino si chiude a riccio
Il primo è
L’Arancino si chiude a riccio, evocazione del mito dell’Isola Ferdinandea, che emerse nel 1831 al largo della costa siciliana e sparì nel nulla pochi mesi dopo. Un apparente e affascinante mistero vulcanico, origine di storie leggendarie, della più ricca barriera corallina del Mediterraneo e di alcuni dei miei più felici ricordi d’infanzia, quando al largo di questa sorta di “isola che non c’è” mi immergevo alla ricerca di pesci e di coralli. Una base di polpa di gamberi, succo di mozzarella e pistacchi accoglie il guscio di un arancino autunnale di zucca e succo di gamberi, avvolto da una trama di spine croccanti al nero di seppia: l’evocazione del rapporto tra ogni riccio e il suo scoglio, entrambi accarezzati dalla morbida spuma del mare. Come molti dei miei piatti, questo abita il confine in cui si congiungono il mare e la terra. E attraversa la Sicilia fino a toccare le pendici di un altro vulcano, l’Etna, con i suoi colori e i suoi pregiati pistacchi.

Proprio le atmosfere dell’Etna in questa stagione, odorose e selvatiche, ho provato a dipingere col secondo piatto, il mio
Carciofo alla cenere, in cui ho cercato di racchiudere una stratificazione di elementi speziati, affumicati e iodati. Da anni reinterpreto questo piatto quasi come un assoluto di quest’ingrediente di stagione, che trascina con sé la ritualità della brace, che fa parte del nostro codice genetico come ne fa parte la cenere del vulcano. Anche qui, per me, c’è infatti un ricordo di quand’ero bambino, di quando ci si divertiva a sfogliare carciofi ripieni come in un gioco tutto contadino di “m’ama non m’ama” – goloso, però, e profumatissimo –, e per stare insieme si stava intorno alla carbonella dove ogni foglia pian piano si concedeva al fuoco. Così in questo piatto ricostruisco il mio carciofo pezzo per pezzo, dai gambi ai petali croccanti, accompagnandolo a un bignè di ceci e baccalà mantecato, fino alla cenere che ricompongo con sesamo nero, semi di finocchio, cardamomo, tè nero e sale nero.

Giorgio Cicero e Accursio Craparo
Ecco, i due piatti che ho raccontato a Lanzarote per me sono un simbolo della visione della Sicilia del futuro che esprimiamo da
Accursio Ristorante: una visione figlia di sincretismi inediti, alla ricerca dell’eleganza. Ricordo e passato costruiscono e influenzano la storia, proprio com’è nel caso dell’arancino e del carciofo alla brace: una semplice combinazione ingredienti poveri che in queste forme abitano l’immaginario di molti. Ma interpretare e rimodellare la tradizione comporta un nuovo sforzo narrativo, per muoversi verso un’esperienza differente.
Una tensione che ho sentito comune a molti colleghi, lì a Worldcanic: un incontro da cui siamo tornati a casa con tante energie, di quelle solo vicino ai vulcani si possono sentire e condividere!