In cucina, un classico eseguito magistralmente emoziona sempre. Lo riconosciamo ed è in quell’idea consolidata che abbiamo di un piatto che si annida un senso di riverenza particolare, l’allegrezza di allineare gusto e aspettative, e nel migliore dei casi di superarle.
Più difficile è lasciare che una reinterpretazione dello stesso susciti pari stupore e convinca, specie quando rasentiamo l’iconicità di un piatto. Quale è a tutti gli effetti il Carpaccio alla Cipriani: iconico.
Nella sua versione tradizionale, questo baluardo dell’Harry’s Bar di Venezia, invenzione di Giuseppe Cipriani, prevede veli di carne cruda, tagliata sottilissima, servita con una maionese condita con un goccio di Worcester e poco succo di limone, apportando così quella grassezza che manca alla carne, con una spinta di acidità.

Vania Ghedini e Matteo Metullio, chef del ristorante Harry's Piccolo, a Trieste
In occasione della cena a quattro mani andata in scena qualche settimana fa al ristorante Oro all'Hotel Cipriani by Belmond, casa della chef Vania Ghedini che ha ospitato Matteo Metullio, dell’Harry’s Piccolo di Trieste, del Carpaccio in menu c’era, eppure ci siamo trovati dinanzi a qualcosa di completamente diverso…

Come una panzanella - pomodoro camone marinato, salsa di pane e lievito, tagete e pimpinella
Una cena particolarmente benedetta, che ha puntato sull’appagante piacere di una materia prima priva di inganni, dando centralità massima all’ingrediente, a consistenze e sfumature tali da riassettare la nostra memoria dello stesso: il pomodoro di una Panzanella, acceso da kimchi e quel fondo di una scodella che raccoglie gli umori di aceto, olio, cipolla, cetriolo portati in una granita al lievito; la brace di una lattuga che avvolge con il suo fumé la ricciola di una Caesar salad di mare, con maionese di midollo di ricciola che aggiunge grassezza a un boccone etereo; e ancora, l’Harry’sotto, simbolo di un vegetale ampio, basilico intenso intervallato da un’acidità morbida di pomodoro, interrotta occasionalmente dalla forza dell’acciuga che aggiunge ruvidità alla seta del risotto, mentre il plancton evoca il fondale silenzioso di quest’orto vivace.

La Caesar Salad di mare firmata da Matteo Metullio
Lattuga alla brace, crudo di ricciola, maionese di midollo di ricciola alla menta, erba cipollina, caviale e riso soffiato
Ma se è di classici che stiamo parlando, un Branzino alla vicentina ci induce a una prima riflessione sull’interpretazione ad personam di una ricetta che è tradizione pura.
Innanzitutto branzino, e non baccalà, per andare incontro più sicuri a quelli che sono i gusti di chi arriva alla tavola di Oro. Dunque, quasi sempre, in un percorso degustazione, giunti al servizio dei secondi, ci imbattiamo in una composizione pressoché abusata: un trancio compatto, una buona salsa e qualche verdurina in accompagnamento. Quel crescendo così vibrante che fino a un attimo prima ha entusiasmato l’ospite, improvvisamente subisce una battuta d’arresto e al di là della qualità dell’ingrediente, resta ben poco sul palato, figuriamoci nel ricordo.
Non è il caso di questo branzino, ragionato e seducente: l’origine è il territorio, unica indicazione suggerita da Massimo Bottura a Vania ai tempi dell’apertura di Oro – la sua missione, è narrarlo -, poi massima libertà di espressione. Ecco dunque la Vicentina, con la sua salsa ricca di cipolle, acciughe, latte e anche un po’ di formaggio.
Ora, al di là del condimento - potente, stratificato, come il gusto d’altronde -, ciò che prima balza all’occhio è la scelta di evitare il trancio, trascurando quindi la compostezza di un filetto, mentre viene preferita la forma di straccetti succosi. Il pesce viene sfaldato, profanato – eppure la brillantezza di Vania sta nel non renderlo stopposo –, richiamo esplicito alla ricetta classica dove il pesce, il baccalà, arriva proprio così.

Branzino alla Vicentina, cotto alla brace, salsa vicentina e fondo di cipolla (foto di Marialuisa Iannuzzi)
Quindi stratificazione: c’è la cipolla in agro, una piccola parte di yuzu koshō, limone candito, quindi il branzino cotto alla brace e condito con olio alla cipolla, la sua polvere, e dello zahatar, sulla scia della permanenza marocchina della chef Ghedini (qui puoi leggere tutta la sua storia) profumato di origano, semi di sesamo e spezie; quindi, salsa vicentina calda, una beurre blanc addizionata con fumetto di pesce e cipolla cotta in forno; a terminare un fondo a base di scarti di cipolla, buccia compresa, che apporta un taglio più amaro, quasi di tabacco, e del prezzemolo riccio.
Esce dal selciato Vania, e lo fa imprimendo la sua orma in questa rinascita del tutto inattesa. È all’ottavo mese di gravidanza quando riceve la chiamata di Massimo Bottura per il suo Oro. Inattesa, come lo è d’altronde la genesi dell’Omaggio a Carpaccio.
Prova menu: Vania presenta allo chef dell’Osteria Francescana una battuta di carne servita con della salsa al fico. I gusti c’erano, il piatto funzionava e per Vania, questa sembrava essere l’unica maniera di servire una cruda così da non interferire in alcun modo con sua maestà il Carpaccio, sovrano nel suo regno.
«Non posso toccarlo», pensa. Eppure, Massimo le lancia una sfida che vira in direzione opposta: «Sei qua, devi fare un carpaccio. Per rispetto del luogo». E sia.
Tanti predecessori ci avevano già provato e ora che la patata bollente passa tra le sue mani, deve provarci anche lei. Così torna a casa, è notte e deve trovare una soluzione. Ma non è semplice. Il bimbo piange, i pensieri corrono e Vania non dorme.
Da dove cominciare? Da zero, dall’origine, dal lemma in questione, e dunque si incammina su una strada a ritroso: come è nato il piatto, quando – l’idea, lo ricordiamo, fu una trovata di Giuseppe Cipriani che, per accontentare una sua amica Contessa, la quale non poteva mangiare carne se non cruda, porta in tavola questo taglio sottile sottile, il cui nome è stato scelto in virtù delle tinte accese che tanto ricordano quelle dei quadri del Carpaccio, artista veneziano del 1400.
Legge, fa ricerche e improvvisamente il suo occhio si imbatte in un’opera dello stesso, il ritratto di un uomo veneziano dallo sguardo affilato che pare giudicare da lontano Vania. Che se ne innamora perdutamente e da quell’uomo viene salvata.

Foto di Marialuisa Iannuzzi
Pensa ancora. «Se ti ha chiesto un carpaccio deve arrivare un carpaccio, non una semplice carne cruda». Insomma, tutto dove cambiare pur non cambiando affatto. E l’intuizione arriva nel tragitto casa-lavoro, pochi minuti prima della presentazione del piatto: Carpaccio l’aveva salvata e doveva esserci nel piatto, a raggiungere con la sua opera lo sguardo di chiunque si accomodi all’Oro.
Ed eccolo quest’uomo veneziano con i suoi occhi profondi. Ora è davanti a noi. Una tela da squarciare, un atto apparentemente dissacratore, come quello di ripensare un grande classico, già perfetto: nasconde la carne, sottile, in carpaccio, condita con erba cipollina, poca senape e della salsa al fico, che resta e dà quella grassezza corroborante in un piatto così lieve. Immutato, eterno, eppure nuovo.