Omakase è un atto di fiducia dell’ospite.
È la scelta di affidarsi completamente a chi prepara, a chi porta in tavola un pensiero e non solo materia, in uno stile preciso che accettiamo senza sapere esattamente cosa aspettarci. E non parliamo solo di sushi, ma di qualsiasi tipo di preparazione, purché accolta nella sua interezza, senza interferenze.
È un abbandono totale al cuoco, e in una certa misura, anche ai sensi.

Le celle di maturazione del pesce
Quando Andrea Arcieri, classe 1997, chef di Azabu 10 - Zushi and Thingz, a Milano, inizia a progettare il suo ristorante, lo immagina esattamente così, a partire da quell’idea di base secondo cui l’ospite in arrivo in San Glicerio al 6, viva quel luogo come una destinazione in cui tutto può accadere. Lasciando che lo stesso locale evolva a mano a mano che il pubblico familiarizzi con questo approccio. Senza fretta, senza forzare i tempi: in una prima fase, infatti, erano previsti menu di “ampiezza” variabile a seconda di quanto l’ospite fosse disposto a esplorare – e anche a spendere -; c’erano dei tavoli, e non solo il banco, ma c’era soprattutto il desiderio di farsi conoscere e concedere a tutti l’opportunità di immergersi nell’esperienza Azabu.
E arriviamo al presente.

La "playlist" della nostra cena: pezzogna, branzino, pesce serra, pagro, orata, capasanta, ostrica, carango
Oggi, chi approda da Azabu 10, lo fa con una consapevolezza diversa, la stessa che ha suggerito un cambio di rotta la scorsa estate: sono disponibili adesso due turni di prenotazione (il primo alle 19.30 e il secondo alle 21.30), per un massimo di 10 ospiti per ciascuno slot; il menu è unico per tutti, suddiviso in due atti (ciascuno con un banco dedicato) per un totale di circa 20 portate. Tra un atto e l’altro, infine, è previsto un breve intervallo di circa 10 minuti per concedere all’ospite la possibilità di prendere fiato, e poi ricominciare.
È lucido Andrea, concentrato e teso al banco, padrone di una gestualità che ha fatto sua nel tempo, sebbene abbia studiato tutt’altro - grafica e comunicazione per la precisione -, senza il passaggio canonico all’istituto alberghiero. Ma la ristorazione è affare noto in famiglia (originaria di Bisceglie, in provincia di Barletta-Andria-Trani, ndr), e tuttora occupa buona parte di Via San Glicerio con le attività dello zio e del padre, che puntano soprattutto su crudi di pesce e cucina pugliese, pietre miliari nella formazione di Andrea, che apre il suo Azabu nello stesso stabile in cui è nato.

Ed effettivamente è proprio quella matrice pugliese ad aver corroborato una sensibilità verso il crudo in Andrea, «perché se i napoletani sono particolarmente abili nelle cotture di pesce - precisa Arcieri -, a Bari siamo maestri dei crudi». E questo è un tassello.
C’è poi tutto quel tempo passato al ristorante, soprattutto nella fase in cui entrambe sorelle, una volta in maternità, andavano sostituite e Andrea si catapulta completamente nei locali di famiglia. Ma presto quegli spazi diventano stretti, mentre cresce la fame di vedere, di assaporare e vivere al di fuori di quelle mura protettive: punta su Londra Andrea, si muove tra diversi locali, tutti orientati sulla cucina giapponese, fino a Tokyo dove resta per circa tre mesi. Poco romanticismo, tanta ripetizione e soprattutto dedizione consentono a questo giovane cuoco di allenare quella manualità che oggi si è affinata e scandisce i tempi di servizio da Azabu, invitando a un silenzio mistico, in cui il gesto occupa spazio e tempo, ipnotizzando l’ospite che intanto assaggia, contempla e avverte un senso di privilegio nell’assistere a quel rituale.

Tra gli assaggi di benvenuto, in accompagnamento a una Zuppetta di razza montata con manioca, mais e succo di yuzu e una Chicha morada - bevanda a base di mais rosso fermentato con buccia di ananas e mele -, il pincho, che si ispira alla tradizione basca, a base di pane, burro al koji, pomodoro grattato, peperone fermentato, pesce salpa e tozasu, vale a dire un aceto di riso macerato con alga kombu, katsuobushi e nasturzio. Si spande una sottile nota di brace che persiste, fissando il gusto del pesce
Ascolta, si lascia guidare per potenziare la percezione del gusto, soprattutto nel primo atto, Zushi per l’appunto: prima ancora di cominciare, ogni ospite riceve un piccolo assortimento di verdure fermentate – fagiolini, carote, friggitello e zenzero in pezzi grossi – da consumare in morsi misurati, mantenendo l’assaggio dello stesso vegetale su ciascun passaggio del sushi; il palato resta così il più pulito possibile, senza alterare il gusto del pesce in arrivo.
Ogni pezzo va consumato appena giunge sulla base di appoggio, afferrato con una precisa gestualità: le dita – indice e medio - diventano delle bacchette e raccolgono il nigiri che, avvicinandosi alla bocca, va capovolto affinché finisca sul palato dal lato del pesce.

La compattezza delle carni è protagonista nella palamita, soda eppure burrosa; è l'asparago a mitigare con la sua acidità questa sensazione conducendo gradualmente a una chiusura quasi amara
Pezzogna, tsukudani; Branzino, sale di alga kombu e tuorlo d’uovo marinato; Pesce serra, umeboshi; Pagro, bottarga; Orata, albicocca; Capasanta, umeboshi; Ostrica, kaki bushi; Carango, negi miso; Akami, soya 2yo; Zuke chutoro e Otoro, cuore di tonno: il palato va isolato, il contatto diretto con il pesce ne aumenta la percezione; si avverte un aumento di intensità legato innanzitutto al tempo di maturazione del pesce, stagionato nelle celle che danno proprio sul bancone, a cui corrisponde un’aggiunta sempre più generosa di wasabi, la cui quantità viene gestita direttamente dallo chef (discorso analogo anche nella gestione della salsa di soia).

Variano le sapidità, ben definite nel Pagro (stagionato 2 settimane), con la spinta decisa della bottarga di muggine; le consistenze - la Capasanta, si avvicina per struttura a un anemone, è un burro sul palato, acceso da yuzu koshō – condimento speziato giapponese -; la salinità, ultradefinita nel nigiri all’ostrica Regal irlandese, che viene lasciata rassodare pochi minuti a vapore, e poi affumicata per circa mezz’ora con legno di ciliegio, mentre un’ostrica Gillardeau, viene prima lasciata marinare con aromi, dunque essiccata e poi grattugiata sul nigiri, potenziando la eco di salsedine. Quindi, uno studio tattile-anatomico del tonno, il toro, che rivela la sua identità a partire da una grassezza più contenuta con l’akami, la parte dorsale, il cui timbro ferroso viene domato dall'aggiunta di soia, passando per uno zuke, medio-grasso intinto questa volta in una soia dolce, fino all’otoro, grassezza assoluta, servita con salsa di soia invecchiata due anni, dall'acidità più marcata, e condito con cuore di tonno essiccato.

Polpo, Limoni di mare
Una tartare di piovretta accompagnata da un'emulsione a base teste di polpo lasciate in infusione per una notte intera nel succo di lime; quindi, per ulteriori 24 ore, si sommano del coriandolo e aji panca. Infine, l'emulsione viene frullata con limoni di mare. A chiudere il piatto, una spuma leggera, impercettibile di vongole e lupini, e acetosella. L'assaggio imprime un sentore agrumato, più succoso che citrico, profumato; questo si intreccia con l'acetosella che apporta balsamicità, mentre la piovra è "affilata" in masticazione
Provenienza del pesce, quanto più possibile Italia e, dove necessario, si guarda al mar di Galizia o alle Azzorre, soprattutto in fase di fermo pesca.
Pausa. Muta il banco e muta anche la prospettiva: siamo di fronte a uno spazio libero, dalla crescente incisività creativa. La materia si lascia contaminare, si espone a cotture e ingredienti fino a ora celati, ed è nell’armonizzazione di questi di questi due emisferi che l’esperienza acquisisce ulteriore profondità.
La fase Zushi ha ormai preparato l’ospite, che ha preso confidenza con i sapori, col banco e anche col cuoco, a sua volta consapevole di potersi spingere oltre.
Non ci sono schemi; Andrea non ricerca un purismo fine a sé stesso; preferisce assecondare le sue pulsioni e così, lascia che il palato si riavvicini a poco a poco in Italia con il Somen, granchio e masago, uno spaghetto, servito tiepido freddo (in estate la temperatura scende ulteriormente) condito con del granchio blu in diverse consistenze – un dashi chiarificato al granchio blu (per utilizzare al massimo questa specie invasiva) e un olio al granchio in infusione con citronella a mantecare - e uova di trota.

La temperatura sale prima con il Corn Dog, realizzato con chorizo di trota (la cui carne è asciugata in frigo per un paio di giorni e poi speziata con paprika) rivestito da un croccante assoluto a base di farina di mais, riso soffiato giapponese e corn flakes - completamente gluten free -, quindi fritto e condito con salsa bbq al platano fermentato, per proseguire poi con un Ceviche realizzato con almeno 40 ingredienti, principalmente tagli di scarto di testa e coda cubettati, frutta e verdure di stagione, diverse varietà di peperoncino, 4 tipologie di mais per stimolare la masticazione e leche de tigre “rinforzato” da due tipologie di miso; niente a che vedere, quindi, con la versione peruviana, eppure potente – le consistenze invadono il palato, mentre ciascun ingrediente rivela la sua identità gradualmente senza oscurare gli altri, grazie alla pulizia che offre il leche de tigre.

L’avvio al finale dolce è introdotto dalla grassezza invadente (e irresistibile) di un’Anguilla in temaki, che si lega alla sensazione “scivolosa” di un Flan – molto simile a quelli sudamericani – a base di gamberi (le teste di mazzancolla vengono infuse nel latte di cottura del flan) con gambero gobbetto crudo e mou al koji di orzo, fino alla dolcezza più definita di una Tartelletta al platano fritto accompagnata da marmellata di fichi freschi e marmellata di fichi sotto sale (in grado di scatenare una sensazione scoppiettante sul palato), poi mousse all’olio di foglia di fico e fico fresco. Infine pulizia, affidata al kakigori, la grattachecca made in Japan, al pomodoro andino in più consistenze.
Andrea non è solo.

Gli abbinamenti sono sempre pensati su misura dell'ospite e spaziano tra vino, sake e pairing analcolici
Con lui si muove una squadra giovanissima che accompagna l’ospite; ciascuno, dal banco alla sala, incide con la sua identità, mentre si propaga quella naturale tensione a sperimentare, per esempio, nella realizzazione di kombucha homemade, strepitosa quella al fico, dalla spiccata acetica, audace in acidità senza che venga persa l’intensità odorosa di fico nero maturo.
Non siamo a Tokyo, non siamo nemmeno a Londra, ma nella città che applaude chiunque sia in grado di sorprendere e convincere con la forza delle sue idee. E qui siamo davanti a una standing ovation!