A quasi un mese dalla conclusione della quinta edizione del Festival del Recupero, che si è svolta dal 29 al 31 agosto tra i borghi di Pianetto di Galeata, San Piero in Bagno e Santa Sofia, nell'Appennino tosco-romagnolo, torniamo a quelle giornate con l'obiettivo di raccontare l'evoluzione, che ci sembra di grande interesse, di questo appuntamento. Identità Golose segue e racconta il lavoro dell'associazione Tempi di Recupero da diverse stagioni, avendone compreso da subito il valore culturale e sociale: quest'anno, con grande piacere, abbiamo visto nel Festival di Pianetto una maturità e una solidità che meritano di essere analizzate, proprio attraverso le parole di chi lo ha immaginato e continua a guidarlo con passione e visione.
In questa quinta edizione abbiamo innanzitutto notato la dimensione che il Festival ha saputo raggiungere senza perdere la propria anima: il programma più ricco di sempre ha visto alternarsi nomi di primo piano della cucina d'autore italiana – da Gianluca Gorini a Marco Ambrosino, da Juan Camilo Quintero a Valerio Serino, da Cesare Battisti a Yuri Chiotti, passando per gelatieri del calibro di Stefano Guizzetti, Cinzia Otri, Roberto Lubrano e ancora altri – raccogliendo una bella partecipazione di pubblico, a conferma di quanto il messaggio del recupero e della cucina circolare abbia trovato una sua strada nel cuore di professionisti e appassionati. Tutto questo, ed è forse l'aspetto più significativo, senza che dietro ci siano grandi strutture organizzative o sponsor: il Festival del Recupero resta un'iniziativa nata dal basso, portata avanti con lo spirito volontario e collaborativo che ha caratterizzato le prime cene del recupero all'Osteria della Sghisa di Faenza nel 2013, e questa genuinità costituisce forse la sua forza più vera e la garanzia della sua autenticità.

Il chiostro di Pianetto, cuore del Festival
C'è poi un altro elemento che rende questo festival particolarmente prezioso nel panorama degli eventi gastronomici italiani, ed è la sua capacità di far dialogare con naturalezza mondi che spesso viaggiano su binari paralleli: interpreti della cosiddetta alta cucina al fianco di cuochi e osti delle migliori trattorie, gelatieri ed esperti di etnobotanica, raffinati mixologist e produttori di vino naturale, pizzaioli e produttori di bontà artigianali. Tutto questo avviene a Pianetto e dintorni senza alcuna forzatura o gerarchia precostituita. È la dimostrazione pratica che il concetto di recupero – declinato nelle sue molteplici sfaccettature, dall'uso integrale della materia prima al recupero delle tradizioni dimenticate, dalla valorizzazione del quinto quarto alla riscoperta dei territori fragili – rappresenta un terreno comune su cui professionisti con background anche molto diversi possono incontrarsi, comprendersi, arricchirsi reciprocamente.
Dopo cinque anni di Festival e più di dieci dall'inizio dell'avventura di Tempi di Recupero, abbiamo voluto incontrare Carlo Catani, fondatore e anima dell'associazione, per una conversazione approfondita che ci permettesse di comprendere meglio l'evoluzione di questo movimento, gli obiettivi raggiunti e quelli ancora da perseguire, ma soprattutto per capire come un'idea nata quasi per caso in un'osteria faentina sia diventata una rete nazionale di professionisti impegnati a ripensare il proprio mestiere in chiave etica e sostenibile.

Carlo Catani e Laura Demerciari, fondatori dell’associazione Tempi di Recupero
Vorrei partire dall'inizio, ritornare alle prime suggestioni che vi hanno portato a fondare Tempi di Recupero. Quando nasce questa associazione e quali sono stati i suoi primi passi?
L'associazione si è costituita formalmente solo nel febbraio 2020, due anni dopo
il libro che racchiudeva i primi quattro anni di cene fatte all'
Osteria della Sghisa. All'epoca eravamo ancora in una fase che definirei artigianale: organizzavamo cene a tema recupero – avanzi, quinto quarto, piatti della tradizione – interpretate da chef creativi, osti e zdore. La costituzione dell'associazione è arrivata perché la richiesta cresceva, avevamo in programma cene a Milano e Palermo. Poi è arrivato il Covid e ha bloccato tutto. Paradossalmente, quella pausa forzata è stata fondamentale per ripensare cosa volevamo essere. Ci siamo guardati attorno e abbiamo capito che non potevamo limitarci a essere organizzatori di cene, dovevamo diventare una vera rete di persone interessate a raccontare l'attenzione all'uso integrale della materia prima, alla sostenibilità, al non spreco. E' stato il nostro punto di svolta: le cene restano uno strumento importante, ma non sono più l'unico né il più rilevante. Oggi la cosa fondamentale è la rete, mettere insieme persone con competenze diverse per creare sinergie, per affrontare i problemi quotidiani con nuove visioni e stimoli. E soprattutto per far sentire meno sole quelle persone che interpretano il proprio lavoro con una filosofia diversa, più attenta e consapevole.
Ma le primissime cene, quelle del 2013, come erano nate?
La prima cena di Tempi di Recupero fu nel 2013 all'Osteria della Sghisa. Era appena mancato il gestore, un carissimo amico, e volevamo dare una mano all'osteria perché potesse continuare, soprattutto nelle serate più vuote. Organizzavamo le cene il lunedì, giorno di chiusura di molti ristoranti, così i colleghi potevano partecipare. Riuscivamo a riempire il locale proponendo temi interessanti e nuovi, portando linfa vitale a un posto che aveva perso la sua guida. Era un gesto di solidarietà che si è trasformato in qualcosa di molto più grande.

Il foraging, per adulti e bambini, con l'etno-botanista Alessandro Di Tizio: l'anno scorso ci ha raccontato il suo lavoro (ora terminato, per realizzare altri progetti) al Mirazur di Mentone con Mauro Colagreco

I risultati del foraging di Cesare Battisti, del Ratanà di Milano
L'idea del Festival invece come è nata?
Anche il Festival è figlio del Covid. Con
Roberto Casamenti dell'
Osteria La Campanara, che fa parte del consiglio direttivo di
Tempi di Recupero, ci sentivamo sempre online durante il lockdown. Quando si è intravista la possibilità di ripartire con attività in presenza, Roberto ha messo a disposizione il suo locale, le stanze, e abbiamo invitato la Rete per il primo
Festival del Recupero. Era ottobre 2020, faceva un freddo tremendo, c'erano tre gradi. Fu un'edizione piccolissima, avranno partecipato 500 persone in tutto. Ma ci siamo divertiti tanto, abbiamo visto che era un modo bellissimo di raccontare, trovarsi, condividere idee, così abbiamo subito deciso di riprovarci l'anno successivo, in modo più strutturato.
Guardando l'evoluzione fino a questa quinta edizione, era questa la crescita che ti aspettavi?
Molte delle cose che avevamo in mente si sono concretizzate, e questo ci rende felici. All'inizio molti partecipanti non avevano ben chiaro cosa facessimo come associazione. Magari si erano iscritti, avevano partecipato alla Tempi di Recupero Week, avevano proposto piatti interessanti, ma non coglievano appieno la narrazione, gli strumenti che mettiamo a disposizione dei soci. Un po' per mancanza di tempo, un po' perché sono tutti molto impegnati. Oggi invece, e l'ho visto chiaramente durante questo Festival, tutti – gelatieri, chef, produttori – hanno capito perfettamente cosa cerchiamo di fare come associazione e quali sono le nostre tematiche. È un passo avanti fondamentale. Certo, c'è ancora molto da fare. Entrare nel quotidiano delle scelte è sempre complicato, ma i nostri soci sono sempre più consistenti nelle loro proposte e vedono l'associazione come uno strumento narrativo ulteriore per dare forza e valore al loro lavoro. Questo è davvero importante.

Carlo Catani con Marco Ambrosino (Sustanza a Napoli) e Juri Chiotti (Reis a Busca - Cuneo)
Il concetto di recupero per voi ha sempre avuto molte declinazioni: tradizioni dimenticate, cucina circolare, quinto quarto. Oggi, dopo questi anni, qual è l'elemento prioritario?
La risposta è articolata. Oggi ci focalizziamo principalmente sull'utilizzo integrale della materia prima. È il nostro focus comunicativo principale, perché è l'aspetto più rilevante: se ti poni il problema di usare integralmente la materia prima fin dall'inizio, non hai bisogno di un piano B per gli avanzi. Il quinto quarto è già compreso nell'uso integrale, così come il recupero dei piatti della tradizione che questo approccio lo avevano nel DNA. Ma ci siamo evoluti anche su altri fronti: elementi ambientali, agricoli, paesaggistici. Ci occupiamo di montagna, di recupero delle zone fragili, di persone con problematiche o disabilità. Quest'ultimo aspetto è basilare: non puoi valorizzare l'avanzo della zucchina e poi trattare male le persone. Tutti questi elementi sono diventati importanti e toccano molti aspetti, soprattutto l'educazione. Da due anni sperimentiamo attività con i bambini durante il Festival, laboratori che partono dal foraging e arrivano alle trasformazioni, alla ceramica. Stiamo cercando di capire come l'educazione possa aiutare a ricreare una cultura del valore dei prodotti e dell'uso integrale della materia prima.

I protagonisti della prima cena del Festival, che si è svolta nel ristorante daGorini, a San Piero in Bagno: da sinistra Cinzia Otri (Gelateria della Passera a Firenze), il padrone di casa Gianluca Gorini, Fabio Ingallinera (Il Nazionale a Vernante - Cuneo), Valerio Serino e Lucia De Luca, che hanno da poco chiuso il loro ristorante Terra, a Copenhagen, e lavorano al prossimo progetto
A pochi giorni dalla fine di questa edizione, quali sono le cose che ti hanno convinto di più e che ricorderai?
Come sempre sono le persone. Quest'anno si percepiva chiaramente – complice anche il bel tempo, soprattutto domenica – che le persone erano contente, sorridenti, si godevano il momento e apprezzavano di essere lì con altri che condividono certi valori. Professionisti o semplici visitatori venuti per i piatti, i prodotti degli artigiani, i vini: tutti partecipavano con entusiasmo. Il vero valore sono state le persone, tutte. Anche i rappresentanti delle istituzioni, i sindaci, tutti apprezzavano e si godevano le tematiche, anche nei convegni e nelle conferenze. Abbiamo avuto momenti di confronto acceso, come quello sul vino, perché non ci piace limitarci a dire quanto siamo bravi. Vogliamo sviscerare i problemi che esistono nel mondo del vino, confrontarci su soluzioni e ipotesi. La partecipazione delle persone e i loro sorrisi – potrà sembrare banale – sono la cosa che mi ha dato più soddisfazione.

Catani con altri due chef ospiti del Festival 2025: Giacomo Devoto (Locanda de Banchieri a Fosdinovo, Massa Carrara) e Max Poggi (SerraSole a Trebbo, Bologna)
Il vostro sguardo va oltre il territorio locale, ma il legame con le valli che ospitano il Festival è fondamentale. Come descriveresti questo rapporto?
E' centrale, basilare. Il supporto non viene solo dalla
Campanara ma da tutto il tessuto locale: istituzioni, Pro Loco, piccole realtà cittadine, tutte in movimento per creare qualcosa di bello che dia futuro a queste terre. Sono zone considerate fragili, a rischio abbandono, con l'inverno demografico e la difficoltà di trattenere i giovani. Il Festival può mostrare come questi territori siano invece ricchi di opportunità. Sono luoghi meravigliosi che molti scoprono durante il Festival attraverso le attività all'aperto, la conoscenza dei tesori di queste zone. A Santa Sofia, la camminata con il foraging e le opere d'arte sul lungofiume – che abbiamo ripristinato all'ultimo momento per il meteo – è stata favolosa. Purtroppo non siamo riusciti a fare lo stesso a Bagno di Romagna per la pioggia, ma anche lì ci sarebbero stati spazi splendidi. Il trekking a Galeata verso Sant'Ellero ha mostrato sentieri magici, posti che possono offrire alle persone che cercano bellezza quella "experience" per cui molti turisti impazziscono e pagherebbero cifre importanti. Questo tipo di narrazione valorizza i territori e fa bene anche a noi, perché lavoriamo in location straordinarie. Il pubblico ci ringrazia per avergliele fatte scoprire.

Due colonne del Festival del Recupero e di una delle migliori osterie d'Italia: Alessandra Bazzocchi, in cucina, e Roberto Casamenti, in sala, dell'Osteria La Campanara a Pianetto di Galeata
Quali sono le prossime attività fino al Festival del Recupero 2026?
Prima del prossimo Festival ci sarà sicuramente la
Tempi di Recupero Week, partita nel 2019 prima ancora che fossimo un'associazione costituita. Anche quest'anno cercheremo di allargare il bacino della rete, coinvolgere più persone possibili – bartender, gelatieri, chef, osti, vignaioli – per arricchire il racconto di
Tempi di Recupero. Sarà in febbraio, come sempre, perché coincide con le giornate anti-spreco organizzate da
Andrea Segrè. Penso che sia fondamentale fare rete sul tema.