«Una salsa così neanche all’Aqua Crua». Questa uscita di Giuliano Baldessari in mezzo a una brigata di 20 ragazzi della Scuola Alma Mater di Colorno, poteva essere un trucco motivazionale. O la verità. Sta di fatto che in quella cucina il clima era da spogliatoio affiatato. E noi che quel piccione, nappato con la sua splendida riduzione con aggiunta di polvere di liquerizia lo abbiamo assaggiato, non scartiamo la seconda ipotesi.
Il ristorante didattico Mater è un luogo che vuole replicare un tipico locale gourmet. Tavoli rotondi, banchetti per l’appoggio dei vassoi, illuminazione soffusa e lampada da tavolo calamitata di Davide Groppi - molto foodie oriented. Si trova in un’ala della Reggia di Colorno, sede della scuola fondata da Gualtiero Marchesi, e sede delle Cene d’Autore, l’ultima prova che gli allievi del Corso Superiore di Cucina Italiana e del Corso di Sala Bar e Sommellerie devono sostenere prima di partire per i loro stage obbligatori.
Baldessari è il primo chef che arriva da solo, senza aiuto dalla sua brigata. Gli studenti non hanno avuto scuse e per forza di cose, come piace a dire allo chef dell’
Aqua Crua, hanno dovuto “spingere”. Dalla sala del ristorante, come in un reality, potevamo seguire quello che succede in cucina attraverso degli schermi collegati. Intanto i piatti iniziano ad arrivare. Spazio al cerimoniale in versione didattica: il professore/maestro di sala prima guida i suoi ragazzi con i grandi vassoi e poi li conduce nella consegna del piatto in sincrono.
La cosa impressionante erano gli sguardi. Così intensi, così concentrati, così vispi. Sbavature più di una, ma ogni errore era uno spettacolo perché era quello di piccole spugne che vogliono crescere, assorbendo ogni cosa.
Sembra pasta al ragù è il primo piatto illusionista di
Baldessari. Ben spiegato da uno dei ragazzi che l’ha cucinato: ragù di coniglio con finti “ditalini” realizzati con gambi di cavolo rapa.
Segue l’
Aqua Cotta – questa volta il gioco è con il nome del ristorante di Barbarano Vicentino – nella forma di gnocchetti di garusoli avvolti in fagottini vegetali con scampo crudo, foglia d’ostrica e chips di polenta. Ci accorgiamo di far parte di un esame sul terzo piatto, un risotto decontestualizzato, il
Mungotto, fatto con un fagiolo asiatico prezioso nel tenere la cottura e preparato con acqua di cozze, pomodoro, zenzero, pepe e dragoncello.

La sala segue lo svolgimento delle preparazioni in cucina
Candida D’Elia, responsabile didattica della scuola e seduta con noi, improvvisa un’interrogazione al ragazzo che spiegava il piatto, seguita a ruota dallo chef
Matteo Berti, coordinatore didattico per i corsi di Cucina. Nessuna tensione nelle risposte, probabilmente perché era stata scaricata tutta sui fornelli. Dopo il piccione è il torno del reset palatale, servito in una cocotte. È il
Sorbetto di Gin Tonic e rucola mixato con zafferano e menta.
Poi arriva lei, la
Crema Carbonizzata. Può una semplice rivisitazione della crema catalana destare così tanto stupore? Evidentemente sì. Affondando il cucchiaio tutti abbiamo sgranato gli occhi. La crema aveva il colore della mota di fiume, grigio argilla. Opera del carbone vegetale unito all’uovo. Il topping di polvere di caffè, acido ascorbico, lime e radice di polipodio (una felce dal gusto amaricante) ha fatto il resto.

Uno dei piatti della serata, il Mungotto
Potremmo chiamarlo il piatto del crollo delle aspettative, uno schiaffo dolce che con il suo essere così poco invitante ti porta a rimanere basito per la sua estrema bontà. A ripensare poi a quei ragazzi a fine cena…chi più di loro ha delle aspettative? A fine cena erano tutti fianco a fianco, per presentarsi e per dichiarare la loro destinazione di stage:
Da Vittorio,
Fm,
Daniel,
Zur Rose,
Del Cambio,
Nostrano,
Umami,
Seta.
È stato
Giuliano Baldessari a segnare una strada più interessante, per loro, ma anche per noi. «Le aspettative sono quelle che ci fregano. Io sto imparando a non averne così mi accorgo di più di quello che c’è e delle cose belle che mi capitano. Come quando a militare mi sono rimesso un paio di jeans dopo che avevo vestito di verde per 365 giorni. Vi rendete conto, stupirsi per un paio di jeans. Prima erano diventati un’abitudine». Accettiamo un consiglio d’autore.