26-05-2022
Julio Martín Báez davanti all'ingresso del suo bistrot Julia, Loyola 807, nel quartiere di Villa Crespo a Buenos Aires, Argentina. L'ha inaugurato il 10 luglio 2019, 8 mesi prima della pandemia
Nelle settimane che precedettero il congresso di Identità Milano 2021 (il cui titolo era "Costruire un nuovo futuro: il lavoro") queste pagine avevano ospitato un dibattito, continuato poi sul palco del Congresso, sulle condizioni di un settore, quale quello della ristorazione, che come pochi altri aveva sofferto durante la pandemia e che, nel ritornare a una qualche normalità, si trovava improvvisamente senza personale. Si era parlato molto, e tutt’oggi se ne parla, dato che il problema non è affatto risolto, di solidità economica di un’impresa e del benessere delle persone che vi lavorano. O, in altre parole: di sostenibilità economica e sostenibilità umana nella ristorazione, dipendendo molto la seconda dalla prima.
Nelle interviste fatte da Gabriele Zanatta, nelle settimane che avevano preceduto il Congresso, un Piero Pompili, restaurant manager del Cambio di Bologna, sosteneva per esempio che il ristorante del futuro debba garantire "dignità morale ed economica ai suoi dipendenti" e che “la vera sfida del futuro sia proprio dimostrare cosa può fare un ristorante con turni da 8 ore” (leggi qui). Matias Perdomo, chef e proprietario di Contraste, denunciava la mancanza di tutela economica per la ristorazione e sosteneva la conseguente impossibilità di poter aspirare ad avere turni e orari normali “se vuoi lavorare 8 ore non vieni a bussare alla mia porta” (leggi qui). Più di recente, Simone Tondo di Racines, a Parigi, ha raccontato un modello sostenibile interessante: "Stipendi degni, responsabilità crescenti, 3 giorni e mezzo di riposo" (leggi qui).
Si possono infatti offrire condizioni di lavoro degne, se le imprese di un settore così importante per la nostra economia e per la nostra identità culturale, sono tutelate economicamente. Non essendolo, offrire orari standard e paghe adeguate sembra un miraggio, ma chi lavora nel settore non sembra più essere disposto ad accettare questa situazione. Da una parte chef e proprietari che accusano i giovani di mollezza, pigrizia, mancanza di propensione al sacrificio; dall’altra un’alzata di scudi generale da parte di una generazione che non è più disposta ad accettare i turni fagocitanti del settore, il sacrificio della propria vita sociale e personale a fronte di condizioni economiche inadeguate, quando non illegali.
Julio con gli integranti della sua brigata di cucina e di sala. Manca la moglie Gabi che si occupa della parte amministrativa. In tutto, includendo Julio, 8 persone
La cucina di Julio esprime influenze francesi, sudamericane e una certa fascinazione per il Giappone
Il post, pubblicato sul suo profilo instagram, che ha provocato una valanga di reazioni
Pomodori bio con kimchi di rapa, olio di coriandolo, nasturzio, fiore di basilico viola
A marzo di quest’anno Julio ha pubblicato, sul suo profilo instagram @juliomartinbaez, una riflessione sull’equilibrio tra la vita personale e lavorativa di chi lavora nella ristorazione. Il post ha provocato una marea di reazioni, ricevuto migliaia di like, centinaia di commenti, di ricondivisioni e di messaggi privati.
Eravamo stati a Julia poche settimane prima di questo post. Era un giorno infrasettimanale, possiamo dirlo con certezza, senza andare a ricontrollare la data perché, durante il weekend, Julia rimane chiuso. Il piccolo bistrot di Julio, infatti, lavora solo 5 giorni a settimana e per un solo turno. I suoi dipendenti lavorano per 9 ore al giorno per 5 giorni alla settimana, da lunedì al venerdì.
Abbiamo deciso di pubblicare, tradotto, il suo post integrale e di intervistarlo per aggiungere un altro punto di vista al confronto su una questione che, per il mondo della ristorazione, sembra lontana dall’essere risolta e che, negli auspici di tutti, darà forma a un nuovo paradigma.
Meno di un anno fa, ero ancora il lavapiatti di Julia. Lavoravo molto, e continuo a farlo. Maledetto Vergine con ascendente in Capricorno che non smette di lavorare. A cui costa moltissimo dire di no al lavoro. Sono sempre il primo a elogiare l’equilibrio tra la vita personale e lavorativa. Lo voglio per la mia squadra e il suo benessere. Però “en casa de herrero …” sapete già come continua.* Qui le uniche responsabili di tutte le cose belle che mi succedono son Julita e Gabi (figlia e compagna - ndr) che mi appoggiano in tutto quello che faccio, a costo di passare meno tempo con loro. È sano? Non credo, cerco continuamente, ogni giorno, essendo molto duro con me stesso, nel mio dialogo interiore, di analizzarmi punto per punto come cuoco e come persona, allo stesso modo cerco di analizzare questa gastronomia ultra esigente e credo che il cambiamento venga da qui. Ormai non si tratta di vantarsi del fatto di usare prodotti biologici, agroecologici, pesca all’amo, allevamento al pascolo. Credo che tutto questo, a questo punto, dovrebbe già essere implicito nell’etica e nella morale di un cuoco e di un ristorante: la cura del prodotto fin dalla sua origine. Alziamo la posta e offriamo buone condizioni lavorative, più uguaglianza di genere, e il carico di ore lavorative necessario, in modo da poter rendere realtà il desiderio lecito di avere una vita che vada oltre la gastronomia. Credo che sia qui che dobbiamo puntare, credo che stia in questo l’essere indi** e progressista in questo momento post-pandemico. Grazie alla squadra di Julia che mi appoggia sempre in tutto. Fine. *En casa de herrero, cuchillo de palo (in casa del fabbro, coltello di legno) è un proverbio argentino che si riferisce al paradosso della mancanza di alcune cose lì dove sarebbe naturale e ovvio trovarle. **Il termine indi, abbreviazione di indipendente, è preso in prestito dall’ambito musicale. Julio viene da una famiglia di musicisti e gli viene naturale prendere in prestito questa parola per riferirsi a un’impostazione che rompa gli schemi, come ci ha spiegato.
Meno di un anno fa, ero ancora il lavapiatti di Julia. Lavoravo molto, e continuo a farlo. Maledetto Vergine con ascendente in Capricorno che non smette di lavorare. A cui costa moltissimo dire di no al lavoro. Sono sempre il primo a elogiare l’equilibrio tra la vita personale e lavorativa. Lo voglio per la mia squadra e il suo benessere. Però “en casa de herrero …” sapete già come continua.* Qui le uniche responsabili di tutte le cose belle che mi succedono son Julita e Gabi (figlia e compagna - ndr) che mi appoggiano in tutto quello che faccio, a costo di passare meno tempo con loro. È sano? Non credo, cerco continuamente, ogni giorno, essendo molto duro con me stesso, nel mio dialogo interiore, di analizzarmi punto per punto come cuoco e come persona, allo stesso modo cerco di analizzare questa gastronomia ultra esigente e credo che il cambiamento venga da qui. Ormai non si tratta di vantarsi del fatto di usare prodotti biologici, agroecologici, pesca all’amo, allevamento al pascolo. Credo che tutto questo, a questo punto, dovrebbe già essere implicito nell’etica e nella morale di un cuoco e di un ristorante: la cura del prodotto fin dalla sua origine. Alziamo la posta e offriamo buone condizioni lavorative, più uguaglianza di genere, e il carico di ore lavorative necessario, in modo da poter rendere realtà il desiderio lecito di avere una vita che vada oltre la gastronomia. Credo che sia qui che dobbiamo puntare, credo che stia in questo l’essere indi** e progressista in questo momento post-pandemico. Grazie alla squadra di Julia che mi appoggia sempre in tutto. Fine.
*En casa de herrero, cuchillo de palo (in casa del fabbro, coltello di legno) è un proverbio argentino che si riferisce al paradosso della mancanza di alcune cose lì dove sarebbe naturale e ovvio trovarle.
**Il termine indi, abbreviazione di indipendente, è preso in prestito dall’ambito musicale. Julio viene da una famiglia di musicisti e gli viene naturale prendere in prestito questa parola per riferirsi a un’impostazione che rompa gli schemi, come ci ha spiegato.
Julio, il tuo post ha avuto un’enorme risonanza sui social argentini. Migliaia di like, centinaia di commenti, condivisioni, messaggi. Ti ha sorpreso il numero e la qualità delle reazioni che ha provocato il tuo commento sui social? Si, mi ha sorpreso moltissimo. Non mi aspettavo una tale ripercussione. Credo che questo evidenzi ancora di più un malessere generale di chi lavora nella ristorazione, e dobbiamo impegnarci per migliorare questa situazione. Non si possono fare orecchie da mercante. Mi ha sorpreso la quantità di messaggi di appoggio a quello che ho scritto. E i messaggi privati che ho ricevuto sono stati ancora più numerosi dei commenti al mio post. E lo stesso vale per i repost. Ho sentito un’enorme empatia da parte di tutti.
Perché hai deciso di condividere sui social questa tua riflessione? Da quando ho aperto Julia, uno dei miei obiettivi è stato quello di cambiare certi meccanismi della ristorazione. Ci è voluto del tempo per arrivare a questo equilibrio: all’inizio lavoravamo molto di più, ma da circa un anno, siamo riusciti a iniziare a diminuire la carica oraria, migliorando le condizioni di lavoro. Durante i miei 16 anni di esperienza in diverse cucine, non ho imparato solo a cucinare: ci si rende conto anche di quello che, un domani, nel momento in cui si apra il proprio ristorante, uno non vuole fare. Credo che non ci sia migliore maniera di definirsi iniziando dal non farò questa cosa, né quest’altra. Era tempo che pensavo di condividere pubblicamente questa forma di pensare.
Tartare di anguria semi-disidratata (nel forno a 80°C per tre ore), semi di zucca tostati, maionese di lievito tostato (si sgrana il lievito, lo si tosta in forno finché sia ben dorato, e lo si usa per preparare una maionese classica a base di uovo e olio neutro), shichimi tōgarashi
Crudo di trota patagonica, aceto di lampone, salsa di sesamo bianco, olio di jalapeño rosso, more, lamponi, foglie di nasturzio, fiori di garofano selvatico e foglio di alga nori tostato alla parilla. Si può spolverizzare sul crudo o utilizzare per gustare il tutto in un mini-taco
Avocado e calamaro, pesto bianco di noci, senza basilico, kefir di yogurt
Nel settore, dopo il periodo pandemico, molti tuoi colleghi denunciano una grave difficoltà nel trovare personale. A cosa è dovuta questa situazione? Hai avuto/stai avendo le stesse difficoltà? Non ho avuto difficoltà nel reperire personale per la formazione della mia brigata. Per fortuna devo dire anche che non ho molta rotazione. Credo che si debba al clima lavorativo che cerco di creare quotidianamente a Julia. Vedendo il malessere generale che si respira nel settore, credo che le difficoltà nel trovare personale siano relazionate alle condizioni lavorative. Credo che abbiamo assistito a una rottura post-pandemica del paradigma lavorativo della ristorazione, e dobbiamo vederlo come qualcosa di positivo per tutti, proprietari e dipendenti: un cambio in meglio è una cosa positiva.
La brigata di Julia lavora da lunedì al venerdì, dalle 16 all’1 di notte, per un totale di 45 ore settimanali. Lo stipendio di chi lavora con te è lo stesso di chi lavora sei giorni alla settimana o con doppio turno? Si, è lo stesso di chi lavora sei giorni o fa doppio turno.
Come riesci a rendere sostenibile economicamente il tuo progetto, con un ristorante di appena 22 coperti, che lavora solo 5 giorni a settimana, per un solo turno e con i costi di prodotto e di servizio di un fine dining? Ho una formazione accademica molto forte in hoteleria y turismo (scuola alberghiera) nella gestione dei costi del food & beverage. Faccio un controllo quotidiano delle entrate e delle uscite, non perdo mai il controllo dei costi e delle spese. Credo sia aspetto fondamentale nella gestione di un ristorante per poter proiettare stipendi, investimenti, e acquisti. Specialmente in un paese come l’Argentina, dove abbiamo un’inflazione annuale che si aggira attorno al 50%. Credo che, se chiudere un giorno in più alla settimana, implica aumentare di una piccola percentuale il costo del menu, bisogna farlo. Rimanere chiusi due giorni rappresenta un costo per il ristorante e bisogna recuperarlo, in qualche modo. Credo che il cliente non sceglie dove andare a mangiare solo per la qualità degli ingredienti che vengono usati (cosa che dovrebbe essere scontata in ogni ristorante) ma anche per la qualità umana e una sostenibilità integrale.
Negli anni della tua formazione, hai sofferto la mancanza di equilibrio tra la vita personale e lavorativa? Non so se la definirei “sofferenza”. A me piace lavorare e lavorare duro, mi piace stare tutto il giorno nel ristorante, ci sono sempre cose da fare. Un ristorante ti può assorbire molto, se glielo permetti anche 24 ore al giorno, 7 giorni su 7. Ma è necessario trovare un equilibrio tra vita lavorativa e vita personale. Quando uno mette tanta passione in quello che fa, è normale che succeda: il tempo vola. Dopo la pandemia molti di noi hanno imparato l’importanza della famiglia, degli amici, del tempo dell’ozio, fondamentale per una vita sana. Sana non solo per noi stessi, ma anche per chi ci sta vicino, per chi ci circonda e condivide con noi la quotidianità fuori dalla cucina.
Matias Perdomo, in un’intervista su queste pagine, parlando del suo ristorante Contraste, ha sottolineato l’impossibilità (dovuta alla mancanza di adeguate tutele economiche per il settore) che la giornata lavorativa in questo settore sia di 8 ore: “Se vuoi lavorare 8 ore non vieni a bussare alla mia porta” (Leggi qui). Cosa ne pensi?Sento che ci sono momenti in cui bisogna lavorare duramente, soprattutto quando uno è cuoco ed è giovane e straripa di energia e di voglia di imparare. Pero arriva anche il momento in cui una persona ha il desiderio lecito di avere una vita personale e bisogno rispettarlo. Se la cosa più difficile da realizzare è quella di avere un’attività economicamente sana, con una squadra felice, che lavori 9 ore al giorno, 5 giorni alla settimana, diamoci da fare per realizzarlo: vediamo di lavorare per realizzare la cosa più difficile, quello che sembra impossibile.
Orecchione (fungo ostrica), spugnole di Bariloche, fagiolini freschi, pickles di mirtilli, miso di ceci, germogli di carota
Trota alla parilla, salsa a base di carota lattofermentata, dragoncello
Ojo de bife maturato per 72 ore nel koji, olio di coriandolo, salsa di sesamo nero
Helado di Blu Couly servito con una gelatina fatta di agar alla fragola e kombucha di ciliegia. Il Blu Couly è uno degli erborinati prodotti da Mauricio Couly nella sua Queserìa Ventimiglia di cui vi abbiamo raccontato qui
Il tema dell’equilibrio - che desideri e incoraggi nella tua vita personale e in quella della tua squadra - mi sembra torni anche nella tua idea di cucina, lì dove costruisci l’equilibrio di ogni tuo piatto giocando con l’acido, l’amaro, il grasso, il croccante, lo speziato... Possiamo dire che la costruzione di un equilibrio, tanto nella vita lavorativa e personale, come nella composizione dei tuoi piatti, sia la chiave di lettura del tuo stile, quello che ti definisce, ti ispira, ti guida? Esatto. Nei miei piatti cerco continuamente l’equilibrio: se hai acidità, deve esserci la parte grassa, se c’è amaro, deve esserci il tocco dolce. Come una salsa o una emulsione: devono essere ben equilibrate, è questo che ti da la voglia di continuare a mangiare. Se in un piatto c’è solo la parte grassa, con due bocconi già abbiamo saturato il nostro palato.
Recensioni, segnalazioni e tendenze dai quattro angoli del pianeta, firmate da tutti gli autori legati a Identità Golose
di
nata a Milano da madre altoatesina e padre croato cresciuto a Trieste. Ha scritto (tra gli altri per Diario e Agrisole) e tradotto (tra le altre cose: La scienza in cucina di Pellegrino Artusi) per tre anni dall’Argentina dove è tornata da poco, dopo aver vissuto tra Cile, Guatemala e Sicilia. Da Buenos Aires collabora con Identità Golose e 7Canibales
Gaëlle Jacquet, direttrice protezione e valorizzazione della denominazione Champagne del Comité Champagne e Domenico Avolio, direttore del Bureau du Champagne Italia
Tomas Kalika, classe 1979, chef di Mishiguene a Buenos Aires. Terrà lezione a Identità Milano sabato 9 marzo, ore 15.25, sala Auditorium del MiCo di via Gattamelata. Per iscriverti, clicca qui
Amorim è una famiglia portoghese che nel 1870 iniziò con una piccola fabbrica di sughero guidata da una visione futuristica ben oltre i confini nazionali. Generazione dopo generazione è diventato un gruppo in grado di produrre e fornire al mondo intero prodotti di sughero dalla qualità eccelsa
Dal Mondo è curiosità, fascino, un guida verso i migliori indirizzi intorno al globo, di cui vi raccontiamo non solo piatti, insegne, ingredienti, ma anche le vite di personaggi che stanno facendo la differenza nel nostro Pianeta, dalla ristorazione al meraviglioso mondo del vino.