16-06-2023

Un nuovo progetto nel Mugello, la magia di Bodega Chacra in Patagonia: parla Piero Incisa della Rocchetta

Le scelte di vita e professionali dell'imprenditore del vino, che ha scommesso sul successo dei propri vigneti biodinamici nello scenario difficile della regione argentina. E adesso ha in mente una ulteriore sfida "a casa", vicino a Firenze

Piero Incisa della Roccetta, seduto, con Gabriele

Piero Incisa della Roccetta, seduto, con Gabriele Graia, l'enologo (italiano) che coordina la squadra della cantina Bodega Chacra in Patagonia. Un progetto bellissimo, che andiamo a raccontarvi

Quando si sale in macchina e si lascia Bodega Chacra, a Mainque, nella provincia di Rio Negro, nella parte “alta” della Patagonia argentina, ci si congeda - con nostalgia e ammirazione - da un posto che sembra appartenere a un’altra dimensione. La casa disegnata da Piero è splendida e accogliente. Le vetrate enormi fanno passare la luce e offrono un affaccio sull’incanto di questo posto: i vigneti incorniciati dai filari di pioppi, i prati fioriti, roseti, cespugli di lavanda, arnie sparse un po’ ovunque; i tigli che profumano l’aria, mescolandosi agli aromi della vegetazione nativa, il silenzio, il richiamo di uccelli sconosciuti, il sussurro dei pioppi, e gli stormi che sfilano tranquilli sopra il profilo degli alberi, in un cielo limpidissimo.  

D’altronde, che Bodega Chacra fosse un posto speciale, lo sapevamo già. Ce ne aveva parlato proprio Piero Incisa della Rocchetta, quando lo avevamo incontrato nel febbraio del 2021 (leggi qui), perché ci raccontasse di questo suo progetto temerario: produrre Pinot Nero in una regione estrema quale è la Patagonia, scegliere la biodinamica, lasciare una zona di comfort quale Bolgheri e investire in un paese complesso come l'Argentina (mentre scriviamo l’inflazione annuale è al 110%). Lo sapevamo anche per come ne aveva scritto James Suckling quando aveva scelto, tre anni fa, il Chacra Pinot Noir Patagonia Treinta y Dos 2018 come miglior vino dell'anno. Eppure non eravamo pronti alla bellezza che pulsa e palpita in ogni angolo di questo posto. Bellezza che trascende la mera questione estetica: ogni particolare di questo quadro concorre all’incanto del luogo, certo, ma compie anche e soprattutto una funzione molto precisa nell'equilibrio che ne regge armonia. Risultato: vini magnifici. 

Piero ci riceve cucinando un piccione cacciato tra le viti da dove proviene il Pinot Noir con cui lo accompagna («a punto o jugoso?» dice che rispondere «fai tu» è una grande offesa, e ha ragione). Ci offre come aperitivo un formaggio Comté accompagnato dal vibrante Chardonnay che firma assieme a Jean Marc Roulot. L’ospitalità di questo maremmano e cittadino del mondo - che ha vissuto nelle ultime due decadi tra New York, l’Italia e l’Argentina - è puntellata di dettagli delicatissimi e spontanei. Non sorprende, essendo il vino stesso il risultato di una serie di dettagli e decisioni continue.   

Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con il Michelangelo del Pinot Noir - epiteto coniato da Luis Gutierrez che, nel suo ultimo report sull’Argentina per Robert Parker, ha valutato con 99 punti il Chacra Pinot Noir Cincuenta y Cinco 2021. Questo è quello che ci ha raccontato. 

 

Due Pinot di punta di Chacra, il Cinquenta y cinco e il Sin Azufre (senza zolfo, senza solfiti aggiunti)

Due Pinot di punta di Chacra, il Cinquenta y cinco e il Sin Azufre (senza zolfo, senza solfiti aggiunti)

Piero, perché fai vino? 
«Forse per sbaglio (sorride). È un mestiere divertente. Mi piace la natura, mi piace creare una collaborazione con un ecosistema cercando di non andarlo a disturbare - benché quando si entra in un sistema si va sempre a disturbare - e poi perché forse, a livello molecolare, si tratta anche di cose che noi agricoltori italiani ed europei abbiamo nel sangue: le facciamo già da qualche migliaio di anni. Probabilmente c’è anche un richiamo viscerale. Essendo nato nella famiglia in cui sono nato, nella minestra ci sono caduto da molto giovane. Tuttavia, c’è stato un momento in cui non avrei mai pensato, in alcun modo, che tutto questo mondo che ha fatto parte della mia infanzia e da cui sono stato circondato fin da bambino, sarebbe potuto diventare la mia passione, per quella tendenza che mostra a un certo momento la giovinezza a non apprezzare e non volere quello che ti trovi già in casa. Un allontanamento è una cosa positiva, devi andare via da casa tua per poter capire un po’ tutto - chi sei, come funziona la vita, cosa vuoi diventare e tutto il resto -. Anche prenderti delle porte in faccia è importante». 

 

Lontano... In effetti sei andato molto lontano. La Patagonia è una regione che mostra condizioni estreme e l’Argentina ha una situazione sociale ed economica che dire instabile è poco. Ti piace uscire dalla tua zona di comfort...
«Io ho deciso di venire qui. Avrei potuto benissimo produrre vino in Italia o in Francia ma sono venuto qui. Ho scelto un posto dove è possibile fare un’agricoltura organica e biodinamica in un modo relativamente semplice: non potremmo lavorare nel modo in cui facciamo senza il microclima unico di questa regione. Non mi interessano le cose facili. A me piace fare le cose quando sono difficili. Se la volevo facile andavo a Wall Street e aprivo unedge found: si guadagna molto di più e non hai gelate, non hai grandinate, non hai tutta una serie di challenge che abbiamo nella nostra industria. Poi, se ti impegni, le cose difficili diventano facili, la ripetizione ti permette di controllare e gestire: di questo si tratta il mestiere. Più lo fai, più migliori. La prima volta magari hai paura, ti va male, la seconda volta capisci dove hai sbagliato, la terza volta hai più automatismi, poi comincia la consapevolezza e lì riesci a captare un po’ di più, ad operare in maniera più fluida. Forse c’è anche un fattore di adrenalina che ti stimola: risolvere dei problemi, trovare delle soluzioni. E bisogna avere anche fortuna. Proprio per questo, il mio modus operandi è quello di vivere perennemente sotto la legge di Murphy: il piano A è molto bello, è fatto bene, è preciso, è vincente, però non funziona mai; il piano B, se hai fortuna, funziona; il piano C, con diverse variazioni, sarà molto probabilmente la norma. Perciò siamo sempre pronti ad affrontare piccoli e grandi problemi».  

 

I vigneti di Chacra e i pioppi a difenderli dall'incessante vento e dall'inclemente sole patagonico

I vigneti di Chacra e i pioppi a difenderli dall'incessante vento e dall'inclemente sole patagonico

Escursione termica tra i vigneti di Chacra: max 32.2°, min 11.8°

Escursione termica tra i vigneti di Chacra: max 32.2°, min 11.8°

A inizio degli anni 2000 arrivasti per la prima volta in Patagonia (tutta la storia l’abbiamo già raccontata qui), spinto da alcune caratteristiche che avevi trovato in un Pinot Noir proveniente da questa regione. Cosa trovasti? 
«Trovai delle domande. Trovai un microclima e un paesaggio che non sono proprio tipici delle zone vinicole. Caratteristiche che mi spinsero a chiedermi se questo fosse un posto in cui sarebbe stato possibile fare dei vini di qualità oppure no. In un momento ti accorgi di non sapere niente di niente. Dai un giudizio basato su delle nozioni che ti sei fatto in Europa e negli Stati Uniti e invece qua è tutto diverso. In Europa abbiamo abusato della chimica e sfruttato i terreni, purtroppo abbiamo fatto dei danni e cambiato il nostro ecosistema. Mentre in questa zona, non essendoci chimica, i terreni sono vivi».  

 

L’anno prossimo Bodega Chacra compie 20 anni: la tua prima annata in Patagonia è stata la 2004. Guardandoti indietro, qual è il bilancio di queste due decadi? 
«La sensazione è molto soddisfacente. Siamo stati fortunati e c’è stato un lavoro molto intenso. Siamo partiti da un vigneto abbandonato e abbiamo avuto il privilegio e la fortuna di riuscire a creare tutto questo: una cantina e un’ottima squadra. Quello che facciamo è comprare vigneti con un materiale genetico interessante e restaurarli per riportarli alla gloria. Come? Lavorandoli in un modo organico, prima di tutto. Attraverso l’utilizzo del cover crop (ogni vigneto ne ha uno su misura). Dopo 2-3 anni il terreno diventa un po’ più marrone, ritornano gli animali, ritornano i lombrichi, la massa fogliare aumenta (fino a un metro quadrato per pianta), la terra diventa molto più fertile, più morbida, le radici vanno più in profondità. È un lavoro molto caro, molto meticoloso, ma che ci permette di fare i vini che stiamo facendo. Siamo arrivati a dei buoni risultati? Siamo arrivati a dei risultati che ci piacciono. Buono/cattivo it’s a matter of taste. Sta agli altri dirlo. Noi abbiamo degli standard che ci siamo imposti che sono molto severi. È il segreto di Chacra».  

 

Tra i vigneti api, fiori, arnie, cover crop

Tra i vigneti api, fiori, arnie, cover crop

Piero Incisa della Rocchetta con Fernando Enfarrell, agronomo responsabile di Chacra, tra i vigneti la scorsa primavera australe, esaminando un brownie di terreno

Piero Incisa della Rocchetta con Fernando Enfarrell, agronomo responsabile di Chacra, tra i vigneti la scorsa primavera australe, esaminando un brownie di terreno

Covoni di fieno per la preparazione del compost e per il foraggio degli animali: Chacra è prima di tutto una fattoria. A destra, le chiome dei pioppi e la luna che scandisce i lavori

Covoni di fieno per la preparazione del compost e per il foraggio degli animali: Chacra è prima di tutto una fattoria. A destra, le chiome dei pioppi e la luna che scandisce i lavori

Qual è stata la parte più difficile? 
«Ho avuto la fortuna di essere nato in una situazione privilegiata, benché io mi sia fatto completamente da solo: Chacra è stata realizzata con dei capitali statunitensi, io ho venduto una parte della mia azienda e ho investito il 100% del ricavato in questa avventura. Ho la fortuna di avere dei soci illuminati - siamo tre, io ho la maggioranza assoluta - che ne condividono spirito e visione. Non abbiamo mai distribuito dividendi, ma sempre reinvestito nell’azienda per poter farla crescere senza chiedere dei prestiti alle banche. La parte più complessa forse è stata la formazione del personale ma anche la selezione degli attori giusti. Poi sicuramente l’inflazione e la situazione economica del Paese non aiutano. Difficile anche il lavoro per convincere i distributori e i clienti che si potesse fare del vino buono al di fuori dell’Europa».  

 

Come li hai convinti?
«Il vino parla da solo. Quando ordini un calice in un ristorante, il proprietario della cantina non lo vedrai quasi mai, e spesso non c’è neanche il sommelier: il vino deve essere buono. I vini che facciamo sono buoni da subito (uno degli insegnamenti del nonno di Piero: una bottiglia deve avere la capacità di invecchiare ma deve essere buona da bere anche da giovane, ndr) e questo è un aspetto molto positivo, anche perché è difficile che un vino che non sia piacevole poi diventi buono. Lo stile dei nostri si abbina molto bene con il tipo di cibo che oggi si cerca nelle grandi città. Penso che ci sia anche un altro aspetto: mi sembra che molta clientela ricerchi in generale dei prodotti che hanno una certa risonanza con la loro visione del mondo. Tanti giovani oggi scelgono di non avere più un’auto, di consumare meno, stanno cercando di non usare tanta plastica, mangiano più verdure e legumi: i vini che facciamo si abbinano molto bene a tutto questo. Hanno un basso contenuto alcolico, non ci sono tannini, risultano piuttosto floreali. La fortuna è stata avere un gusto e uno stile che oggi viene apprezzato sempre di più. Oltre ad essere vini gastronomici, sono fatti senza chimica: non danno hang over». 

 

Piero Incisa della Rocchetta di fianco a un orcio toscano usato in questo caso per la fermentazione delle uve

Piero Incisa della Rocchetta di fianco a un orcio toscano usato in questo caso per la fermentazione delle uve

Il 2012 e 2013 segnano uno spartiacque nella tua vita di essere umano e produttore. Nel 2012 soffri un grave infortunio lavorando in cantina. Da quell’incidente è cambiato il tuo modo di stare al mondo e di fare vino.  
«Una caduta accidentale da una vasca mi ha provocato 18 fratture. Sono rimasto in un ospedale per quattro settimane e otto mesi in Argentina per curarmi. Diverse operazioni, 50 chiodi e 8 placche di titanio in corpo mi hanno costretto all’immobilità e soprattutto all’introspezione, a bilanci e riesami. Capisci chi è lì per te, chi non è lì per te. Non ti puoi muovere, non puoi camminare, sei su una sedia a rotelle. Da quel momento è iniziato un ripensamento intimo e personale, spinto dal desiderio di una maggiore autenticità e guidato da una maggior fiducia verso la mia intuizione. Questo percorso ha toccato tanto la mia vita privata come quella di produttore di vino. È stata una fortuna poter prendere consapevolezza, a un’età relativamente giovane, delle proprie priorità per ridisegnare i criteri con cui compiere le proprie scelte. Ho cambiato squadra e impostazione, iniziando a lavorare nel vigneto e in cantina come avevo sempre desiderato: niente chimica, una conduzione organica e biodinamica, un uso molto parsimonioso del legno, la scelta dell’infusione rispetto all’estrazione, l’utilizzo di lieviti indigeni, un accompagnamento vigile ma rispettoso del processo di vinificazione. Oggi prosegue l’evoluzione del mio stare al mondo come essere umano e come vigneron che si inserisce in una comunità di cui si sente parte e di cui cerca di prendersi cura».  

 

Il senso del dovere nei confronti della comunità in cui ti inserisci col tuo progetto è uno dei valori che ti hanno lasciato i tuoi nonni, Clarice della Gherardesca e Mario Incisa della Rocchetta. 
«Mio nonno Mario era un bon vivant, però era illuminato. Era anche una persona che aveva fatto due guerre e che aveva visto sicuramente delle atrocità incredibili; la sua umanità andava oltre misura. E poi era un geniaccio, una persona che scriveva, faceva dei progetti di architettura, disegnava giardini. Ha avuto l’illuminazione e lungimiranza di associarsi con Federico Tesio (proprietario della Dormello-Olgiata, la scuderia che diede i natali al leggendario purosangue Ribot, ndr), perciò ha avuto un enorme successo coi cavalli da corsa e ha scritto la storia dell’ippica italiana. Poi si è messo a fare vino e ha creato il Sassicaia. È stato sempre un grande protettore della natura. È stato un privilegio avere intorno delle persone illuminate e fonte di ispirazione. Probabilmente oggi la mia personalità è stata forgiata anche da quegli esempi. Ricordo una volta che un mio cugino mi chiese se potevo dargli una gomma, io me la mangiai tutta da solo e mia nonna me la fece sputare dicendomi: "La metà di quello che hai lo dovresti dare agli altri". L’educazione che abbiamo ricevuto è sempre stata lungimirante, ispirata, cristiana. Mia nonna ha disegnato una scuola che poi ha fatto costruire, dando la possibilità a tutti i figli degli impiegati di avere un’istruzione gratuita. Assorbi quello che ti circonda, l’esempio delle persone che ti circondano forgia le tue abitudini e dà un senso alle tue azioni.  Anche da parte della mia famiglia di mia madre (Nerina Corsini, ndr) c’è sempre stata una grande cura per la natura oltre a una educazione non consumare cose di cui non si ha veramente bisogno».  

 

Corna usate per i preparati biodinamici a Bodega Chacra

Corna usate per i preparati biodinamici a Bodega Chacra

Esempio che oggi metti in pratica nella gestione della tua azienda. 
«Se hai la fortuna e il privilegio di poter lavorare e di poter guadagnare, con questo privilegio viene anche una responsabilità, che è quella di dare. Se non sei tu a farlo, chi dà? Chi aiuta gli altri? Non è solo una responsabilità: è soprattutto una gioia. Ti ispira, ti fa dormire bene, ti rende felice. Siamo tutti su questo pianeta insieme. A Bodega Chacra quattro anni fa abbiamo commissionato dei disegni all’architetto brasiliano Isay Weinfeld, una gran fortuna essere accettati come clienti da questo talento che di solito si occupa di progetti istituzionali. Con lui abbiamo avuto subito una fantastica intesa. Il progetto a cui stiamo lavorando prevede una cantina nuova solo per il Sin Azufre (il Pinot Nero di Bodega Chacra elaborato senza solfiti aggiunti, ndr) e una mensa per tutti gli impiegati che include, oltre al refettorio, i bagni, le docce, i camerini, una sala dove poter fare, se lo desiderano, esercizi con una insegnante di yoga, un ambulatorio dove ci sarà una persona qualificata per poter avere diagnosi e trattamenti, utilizzando un approccio olistico. Con Isay abbiamo concepito anche un progetto di case prefabbricate, realizzate in un modo intelligente, con molta luminosità, dotate di pannelli solari, quindi a basso consumo energetico. L’idea è di costruire una casa per ognuno dei nostri dipendenti che ne faccia richiesta». 

 

In modo che siano più vicini a lavoro? 
«No, in modo che prima di tutto possano avere un tetto sopra la testa, non morire di freddo in inverno e non avere troppo caldo d’estate, e poter vivere non solo con dignità ma anche all’interno di una costruzione dove ci sia luce, dove si stia a contatto col bello. Essere circondati dalla natura ti dà un’energia e ti ricarica le batterie e a mio avviso ti rende anche un po’ più felice. Si tratta di qualcosa che ha un valore per noi e ci permette di migliorare l’agricoltura, il vino, la sostenibilità, la governance, la comunità. È un nostro dovere farlo».  

 

A sinistra il magnifico e vibrante Chardonnay firmato da Piero Incisa della Rocchtta e Jean Marc Roulot. A destra il Pinot Noir Cincuenta y Cinco (55 indica l'anno in cui sè stato piantato il vigneto da cui proviene, 1955), 99 punti di Gutirerrez per l'annata 2021

A sinistra il magnifico e vibrante Chardonnay firmato da Piero Incisa della Rocchtta e Jean Marc Roulot. A destra il Pinot Noir Cincuenta y Cinco (55 indica l'anno in cui sè stato piantato il vigneto da cui proviene, 1955), 99 punti di Gutirerrez per l'annata 2021

Progetti futuri? 
«Abbiamo creato un vigneto vicino a Firenze, nel Mugello, in una fattoria che apparteneva alla famiglia di mia madre dove abbiamo selezionato 7 ettari su una superficie di 1.200. Abbiamo già piantato degli uvaggi di bianco e di rosso: Canaiolo, Sangiovese, Pinot, Trebbiano…». 

 

Quando dici “abbiamo”?  
«"Abbiamo" perché questo è un mestiere che non fai mai da solo. Non ha senso dire “faccio”, “ho”...  A meno che tu non abbia 15 mani e 60 piedi». 

 

Prima annata di questo nuovo progetto? 
«Vedremo, perché l’idea è iniziare a vinificare il vigneto non prima di una decina di anni. Intanto lo abbiamo piantato, lo stiamo seguendo attraverso una conduzione organica e biodinamica, tra cinque anni lo vinificheremo e questo mi darà il tempo di trovare dei soci che vorranno investire principalmente per fare la cantina, perché tutto il resto esiste già». 

 

Hai già un nome questo progetto? 
«Non ancora, il nome verrà presto».


In cantina

Storie di uomini, donne e bottiglie che fanno grande la galassia del vino, in Italia e nel mondo

a cura di

Giovanna Abrami

nata a Milano da madre altoatesina e padre croato cresciuto a Trieste. Ha scritto (tra gli altri per Diario e Agrisole) e tradotto (tra le altre cose: La scienza in cucina di Pellegrino Artusi) per tre anni dall’Argentina dove è tornata da poco, dopo aver vissuto tra Cile, Guatemala e Sicilia. Da Buenos Aires collabora con Identità Golose e 7Canibales

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