Alto e silenzioso. Potrebbe essere un cipresso, se non fosse Vittorio Colleoni, classe 1984, autore di uno dei nostri migliori pasti dell’anno – e ne abbiamo avuti molti! Autore certo, ma non unico protagonista: perché al suo fianco c’è Paolo, il primogenito classe 1970 che cura tutto il contorno, che non va inteso come side dish, ma come cittadella del gusto e dell’ospitalità. Ci torneremo. E poi c’è Marco, 1980 attualmente al pit stop. I tre fratelli hanno afferrato saldamente le redini del San Martino di Treviglio dalle mani dei loro genitori, Beppe e Olga, che aprirono il locale nel 1969. L’hanno portato all’eccellenza ovattata di adesso, forti di un dna doc, i bisnonni gestivano proprio tra queste mura una stazione di posta con cambio di cavalli. Spirito orobico puro: si lavora duro, in famiglia, si cresce senza sbandierarlo troppo in giro, senza i fari del riflettore puntati addosso. Ma inesorabilmente, passo dopo passo.
Vittorio, per dire: alto è alto, il che lo accomuna ad altri big in tutti i sensi, Massimiliano Alajmo, Andrea Berton, Pietro Leemann, o il più giovane Enrico Panero, tanto per citarne alcuni. Silenzioso, lo è altrettanto: poche parole ma tanti contenuti, a proprio agio più ai fornelli che in un cooking show. Taciturno, ma la sua cucina ha tantissimo da dire.

Interno del ristorante: presto sarà completamente rinnovato
L’impronta è rimasta quella iniziale: il miglior pescato possibile, il che richiama un’altra storia bergamasca molto simile nella cronaca gastronomica nostrana, quella dei
Cerea (
leggi qui), e chissà chi dei due clan golosi è più stufo del facile paragone. Ma gli uni e gli altri hanno saputo guardare oltre:
Vittorio ad esempio molto in Spagna – soprattutto
Martin Berasategui, ma anche il
Celler de Can Roca – in Francia alla scuola di
Alain Ducasse ad Argenteuil e a Chicago da
Alinea per uno stage un paio di anni fa (c’era finito coll’amico-collega
Giuseppe Iannotti).
Vittorio ha preso molto da queste esperienze. Intanto un’attitudine a sprovincializzare il proprio stile, non perché trascuri il territorio – che, anzi, è sempre più presente in carta, e ancor più lo sarà in futuro – ma quanto ad apertura mentale e capacità di sintesi delle diverse influenze che percorrono il mondo dell’alta ristorazione. Poi, vi ha mutuato una certa compostezza che è propria soprattutto dei suoi due maestri iberici o dei francesi: la capacità, voglio dire, di offrire piatti strutturati, sicuri, autorevoli, senza però perdere in freschezza, vivacità, come accade invece in tanti ristorantoni che sono paludati al punto da apparire ormai stagnanti.
Al San Martino il brio è di casa, come alcune certezze ben radicate. Quella ad esempio di una carta dei vini, regno di Paolo, che si fa forte di legami importanti, pluridecennali, frutto di tanti viaggi oltralpe alla ricerca di piccoli vignerons di nicchia: «Nel 1989 abbiamo iniziato a importare il primo alsaziano», ci racconta mentre versa invece un calice di champagne Vautrain Paulet brandizzato San Martino, «andai a conoscere Arnaud Vautrain, non volevano vendermi nulla perché erano appena stati truffati da un altro italiano. Tornai il secondo anno, cedettero. Oggi ci dedica una cuvée speciale, sono piccoli produttori da 50mila bottiglie, vendono solo a due privati». Uno sta a Treviglio, appunto.

Branzino, panissa fritta, castagne glassate, lamelle di tartufo estivo di Trento, trombette da morto e fondo bruno
Ben si abbina agli appetizer iniziali (fantastico il
Marshmellow di cavolfiore: ma per una carrellata piatto per piatto vi rimandiamo alla fotogallery), perché la regola di casa
Colleoni è: il bicchiere deve accompagnare bene il piatto, non viceversa. In primo piano resta sempre la cucina. E che cucina! Tecnicamente inappuntabile, sempre in bilico tra golosità ed eleganza: le fa andare a braccetto senza perdere mai un giusto equilibrio che è l’anima del successo del
San Martino. Così è per la
Ventresca di ricciola grigliata, spuma di patate, pimenton piccante e porri o per la
Triglia, gel di pinoli, capperi fritti, pomodorini e nettare di bergamotto, che viene servita con le sue squame rese commestibili da una tecnica d’origine giapponese, ma che lo chef ha appreso da
Berasategui che l’aveva a sua volta mutuata da un suo stagista scandinavo – è il bello della globalizzazione. O ancora per il
Filetto di San Pietro con crema d’aneto, salsa di mandorle amare, cipolla e finocchio. O di nuovo nel
Branzino, panissa fritta, castagne glassate, lamelle di tartufo estivo di Trento, trombette da morto e fondo bruno. Si prosegue sicuri e squisiti fino alla
Cheesecake alle albicocche e zenzero, il mondo dolce è appannaggio del
pastry chef Corrado Denti, classe 1984.

Il Marelet, a solo un anno e mezzo dall'apertura, è stato insignito del premio Miglior Bar d'Italia dalla guida Gambero Rosso 2017
Nel 1990 a papà
Beppe era venuta la tentazione: «Chiudiamo?». Per fortuna la risposta è stata negativa: oggi il
San Martino è ristorante di altissima qualità, ma anche hotel. Presto scomparirà il bistrot
Smartino proprio accanto, al suo posto una sala per la degustazione di distillati, una per fumatori… Il tutto nel contesto di un rinnovamento totale del locale. In compenso, nel febbraio del 2015 ha aperto il
Marelet, insegna più easy a poche decine di metri di distanza, con annesso un secondo hotel informale-moderno: «Vogliamo educare il cliente, spingerlo dal basso verso una ristorazione gourmet».
Chiediamo a Vittorio Colleoni di definire la sua tavola. Lui: «Alta cucina con prodotti d’eccellenza, ma vogliamo sempre più citare il territorio in chiave contemporanea», il mare farà spazio alla terra insomma. Concetto questo che ad esempio si sostanzierà in un Omaggio alla polenta allo studio, «ma penso anche a piatti a base di anatra, una carne che adoro cucinare. Vorrei farla come l’ho assaggiata all’Eleven Madison Park di New York, era strepitosa». Parla poco, ma ci sa fare. Eccome.