Abbiamo raccolto come un trattato corale le voci di chi ha contribuito, con i propri pensieri ed esperienze, a dare forma a un’idea di selvatico ampiamente trasversale con l’obiettivo di valorizzare questo mondo ricco di opportunità, per l’alta gastronomia, certo, ma anche per i piccoli consumatori, per la salute dell’uomo e del nostro pianeta.
Spunti di riflessione, visioni concrete, fattori emersi nel corso della due giorni dell’evento Il Bello del selvatico che si è svolto nella meravigliosa cornice de La Subida, country resort della famiglia Sirk a Cormons, Gorizia, un desiderio condiviso dall’executive chef Alessandro Gavagna assieme a Josko, Tanja, Mitja e Loredana Sirk. Con loro, nella tavola rotonda e in cucina: Alberto Gipponi, chef del ristorante Dina a Gussago (Brescia), Alessandro Gilmozzi, del ristorante El Molin a Cavalese (Trento), Fabrizia Meroi del ristorante Laite a Sappada (Udine), Giacomo Pavesi, oste dell’Ostreria Fratelli Pavesi a Gariga (Piacenza), Mariagrazia Soncini de La Capanna di Eraclio a Codigoro (Ferrara), Edoardo Tilli di Podere Belvedere a Pontassieve (Firenze), e ancora Roberto Viganò, veterinario specializzato nella filiera di carni di selvaggina, Roberto Barbani, veterinario che ha contribuito dal punto di vista sanitario a studiare una regolamentazione per il settore e Roberto Aleotti, dell’azienda faunistica venatoria Sant’Uberto - Le carni del bosco, e poi Giorgio Christopulos, Stefano Amerighi, Michele Milani.
Ragionare sul selvatico non è un atto risolutivo, ma un groviglio di dubbi e domande, le cui risposte e azioni un giorno - forse - porteranno a una percezione differente del tema, stimolando la decostruzione di concetti a cui attribuiamo un significato diffuso, carente e spesso ben lontano dalla verità.
Ripartiamo dalla base, mettendo in fila pensieri e dati che invitano a ragionare, invece, liberi da preconcetti, e lo facciamo in occasione di una tavola rotonda a cui hanno partecipato agricoltori, cacciatori, veterinari, vignaioli, giornalisti, ma soprattutto cuochi che da sempre (o per buona parte della loro esistenza), con rispetto e fascino, vivono questo habitat mentale e non solo fisico. Il selvatico, appunto.

Alessandro Gavagna dà il benvenuto agli ospiti
È accaduto qualche giorno fa nel corso dell’evento Il bello del Selvatico, ospitato con calore e gratitudine dalla famiglia Sirk de La Subida di Cormons (Gorizia), un’iniziativa trainata dall’executive chef Alessandro Gavagna e arricchita giorno dopo giorno da spunti, riflessioni, provocazioni, racconti e soprattutto puro pensiero di quanti sono stati invitati a condividere la propria esperienza.

La bellezza naturale del Collio. Foto di Giulia Godeassi
L’obiettivo? Creare un manifesto che inizi a regolarizzare la dimensione del selvatico, a darle dignità e luce, fino a ribadire la centralità sociale del cacciatore, a rivalutare e in alcuni casi a "riabilitare" l’uso della selvaggina in cucina - perchè molti animali vengono cacciati, ma non sempre possono essere proposti ai clienti per motivi incomprensibili, come spiega Michele Milani nell'introduzione del libro "La caccia di Igles" -, portando consapevolezza ai consumatori finali o ai potenziali tali.
Il punto di inizio sembrerà scontato, eppure è essenziale per avvicinarci a questa materia: cos’è il selvatico? I maggiori vocabolari ed enciclopedie convengono sull’associazione del selvatico, per quanto concerne il regno animale, a ciò che vive in libertà, contrapposto, quindi, al domestico; il selvatico vegetale, invece, è tutto ciò che nasce spontaneamente, cresce e vegeta senza bisogno di cure esterne. In entrambi i casi, sembra quasi che il selvatico sia contrapposto all’uomo ed è difficile considerare un suo rapporto di dipendenza da un elemento terzo in natura. Eppure l’etologia del selvatico ci rivela un quadro totalmente differente, perché selvatico è anche ciò viaggia con qualcun altro e dentro qualcun altro.

Il momento della tavola rotonda, un denso momento di confronto. Foto di Giulia Godeassi
Ci spieghiamo. Consideriamo il peperoncino, che cresce selvaticamente. Contiene la capsaicina, vale a dire l’irritante chimico che, unendosi ad alcuni ricettori presenti nel nostro organismo, crea la sensazione di pizzicore quando mangiamo qualcosa di piccante. Nasce lontano, eppure lo troviamo diffusamente perché i volatili lo trasportano un po’ ovunque in virtù della loro anatomia e di quel sistema perfetto che è il creato. I volatili, infatti, non hanno gli stessi ricettori dei mammiferi, ragion per cui fanno incetta di peperoncino senza riuscire a percepire minimamente il piccante. Così, in volo, trasportano i semi che hanno ingerito, questi si spargono e crescono senza cure. Viaggiando dentro.
Ma si viaggia anche nella Storia, nelle consuetudini che appartengono ad alcuni territori più che ad altri, rimarcando che in tema di caccia, non solo regioni diverse, ma ogni singolo comprensorio è regolamentato a modo proprio rendendo sicuramente più difficile la nascita di una filiera comune italiana. Pur partendo da un elemento oggettivo e comune, che origina proprio dai costumi della popolazione e, quindi, dall’uso della selvaggina come mezzo di sussistenza per le famiglie. Non è una tendenza recente, non è una moda: è la Storia, e la Storia avvicina, insegna, crea consapevolezza.
Solo così, consapevoli, edotti, sarà possibile rimuovere stigmi, come quello di additare i cuochi che fanno uso di queste carni quali sostenitori di assassini; per non parlare dei cacciatori stessi che, al contrario, sono animati da un duplice sentimento di rispetto: verso l’arte venatoria e l’animale, e verso la natura, andando a ripristinare gli equilibri originari di determinati ecosistemi. Tanto che, in Paesi come la Germania, esiste un vero e proprio vocabolario del cacciatore, l’uomo del bosco, che offre un servizio pubblico alla cittadinanza e fa anche parte del mondo ambientalista perché non depaupera una risorsa senza un motivo fondante, oltre a essere a tutti gli effetti un consumatore consapevole. Ben lontano dall’immagine del freddo assassino.
«Se spari a un capriolo o a un cervo - commenta Michele Milani dell’azienda agricola The Gardener - è sempre un momento di forte emozione; sei pienamente consapevole del fatto che stai togliendo la vita a un essere vivente e lo sei ancora di più, quando ti capita di guardarlo dritto negli occhi… non come quando compri un pacco di prosciutto al supermercato già bello e confezionato. Quando esci, da cacciatore, studi l’ambiente, controlli in una certa misura la fauna e, soprattutto, non spari al primo animale che trovi. Ti viene assegnato un capo che abbia precise caratteristiche e così garantisci quell’equilibrio, impattando il meno possibile sull’ecosistema».
Ecco perché risulta cruciale la necessità di una filiera italiana della selvaggina: per garantire che nessuno scampi a criteri fondati esattamente su quel duplice rispetto, fino a soddisfare nel tempo, una domanda più ampia e regolarizzata, che vada ben oltre il consumo di queste carni nell’alta ristorazione, ma diretta anche a un pubblico di consumatori “domestici”. Soprattutto in virtù delle proprietà nutritive della selvaggina, dal basso contenuto di grassi e ricca in omega 3 – grassi buoni, anti-infiammatori e antiossidanti - ottima da consumare appena scottata, o meglio ancora cruda. Il che pone l’accento su un ulteriore aspetto: la carne di selvaggina quasi sempre è preparata in salmì o protagonista di ricchi stufati, preparazioni pensate per contrastare odore e sapore forti, addolcendone le consistenze attraverso cotture prolungate che, alla fine, restituiscono poche emozioni e ancor meno dal punto di vista nutrizionale.

Coscia di camoscio alla brace di Alessandro Gavagna
Non solo: simili ricette, limitano il consumo di questa carne solo nei periodi invernali, considerata la loro ricchezza e pesantezza, allontanando dal gusto naturale, dalla possibilità di educare il proprio palato al vero, ma soprattutto di nutrirsi onorando fino in fondo, la morte della bestia, che scompare sotto il peso di marinature violente, spezie e condimenti invadenti. Un animale cacciato correttamente risulterà in un prodotto delizioso anche senza ricorrere a trasformazioni marcate, e un bravo cacciatore questo lo sa: la sua arte, dopotutto, consiste nel far soffrire l’animale il meno possibile.

Preparazioni dalla cucina della cena collettiva de Il Bello del selvatico. Foto di Giulia Godeassi
Ora, abbandoniamo contesti idilliaci, naturalistici e trasferiamoci per un attimo nelle nostre città dove consumiamo carne per abitudine, e dove una disponibilità pressoché illimitata ha fatto perdere la bussola su ciò che magistralmente provvede la natura di stagione in stagione: verdure amare per depurare l’organismo in primavera, dopo un consumo eccessivo di cibi grassi; frutti rossi per l’estate per assimilare i liquidi che perdiamo con il caldo. E invece, lungo l’intero corso dell’anno, l’offerta si fonda in buona parte sul tris consacrato di melanzane, zucchine e peperoni. Blandi, scarichi e fuori stagione.
Per arrivare al regno animale: al consumo massiccio di carni da allevamenti intensivi, di salmone anch’esso allevato, fino ad assistere a fenomeni quali l’invasione dei cinghiali delle nostre città e a uno scellerato abbattimento di capi sani, buttando kg e kg di carne buona, con risarcimenti lenti e ostici nei confronti degli agricoltori quando i loro campi vengono distrutti.
Come avvicinare, quindi, il selvatico al contesto urbano?
In questo ci aiuta a ragionare Alberto Gipponi, chef del ristorante Dina a Gussago. Che da un lato richiama la poesia di un prodotto coltivato dal contadino, per il quale saresti disposto a percorrere ore e ore di strada, o di una carne cacciata eticamente. Ma la vera sfida è quella che si presenta nell’ottica dell’evoluzione e del mondo in cui viviamo: la vera sfida sarà trovare un punto di incontro tra il selvatico e la vita stessa.

Il cielo sulla cantina a impatto zero di Edi Keber, vignaiolo del Brda
Come chi si riappropria silenziosamente di questo mondo, anche in contesti che non ci portano a pensare immediatamente al selvatico: perché selvatico è ripopolare di uccelli i vigneti della famiglia Gravner, creare dei microhabitat che in completa autonomia prendono vita, generando equilibri virtuosi.

I vigneti di Ribolla della famiglia Gravner
Ma selvatico è anche il coraggio di seguire il proprio istinto, di fare un vino non secondo le convenzioni, ma secondo la maniera che emoziona e che sentiamo nostra - è il caso di Kristian Keber che sceglie di costruire una cantina che non fa uso di energia elettrica, né idrica, riconnettendosi alla natura. L’istinto degli equilibri in un piatto e quello di andare controcorrente. È il principio di un inselvatichirsi di cui abbiamo bisogno e che può generare vita nel tempo.
ASSAGGI E MOMENTI NELLA NOSTRA GALLERIA FOTOGRAFICA

In cucina. Foto di Giulia Godeassi

Josko Sirk mentre prepara la polenta, senza aggiunta di grasso alcuno: solo acqua, farina e olio di gomito. Foto di Giulia Godeassi

Insalata di pasta di erbe amare, un piatto di Alberto Gipponi - foto di Marialuisa Iannuzzi

Edoardo Tilli nel suo elemento, il fuoco, mentre prepara un cinghiale alla brace

Camoscio e nutria in umido con straccetti di pasta

Il momento della pulitura della rosa di Gorizia della famiglia Brumat