05-10-2023

«La nostra cacio e pepe diversa»: la rivisitazione felice del Paca di Prato

Materie prime del territorio, utilizzo degli scarti di lavorazione e tecniche che concentrano il gusto: la proposta di Niccolò Palumbo e Lorenzo Catucci

La Cacio Pepe di Paca, Prato

La Cacio Pepe di Paca, Prato

Una semplice scarpetta sul fondo del pentolino lasciato al centro della tavola conclude una filosofia sigillata all’interno di un piatto di pasta: recupero degli scarti, gusti nuovi e irriverenti, servizio di sala tanto inclusivo quanto esclusivo. Queste le parole riassunte all’interno della Cacio e pepe di Paca, il piccolo ristorante dal profilo contemporaneo e artigiano, che onora Prato (o di cui Prato è onorata, a seconda del punto di vista) con la sua cucina ora insignita della stella Michelin.

Se non avete mai sentito parlare di questa insegna, né tantomeno toccato con mano e palato la sua cucina, prendete in mano il cellulare e prenotate al più presto una cena alla tavola rotonda di via Frà Bartolomeo 13. Ordinate il menu degustazione “Dodici tappe”, divertitevi assaggiando l’esplosivo Oreo di fegatini di pollo, affondando il cucchiaio nell’incredibile “Ceci, ceci, ceci”, un benvenuto complesso e completo dove il legume diventa chips, gelato e aria e ancora spolverando one shot il goloso bottone di pasta all’uovo ripieno di sugo di cacciucco alla livornese con salsa al lievito di birra e olio all’alloro.

Ma soprattutto, attendete cauti il momento centrale della cena, quando Lorenzo Catucci, co-patron nonché maître e sommelier del locale, allestirà davanti ai vostri occhi lo spettacolo più elegante e al contempo arcaico a cui potrete mai assistere nella città: la preparazione della pasta Cacio e Pepe. «Uno schiaffo che riporta le persone sul binario della concentrazione nel momento in cui di solito quest’ultima comincia a calare” - così lo chef Niccolò Palumbo, anche lui patron dell’insegna, la descrive. Una ragazza prepotente, somma di coincidenze, amicizie, storie di vita vissuta, tecnica e personalità».

Niccolò Palumbo e Lorenzo Catucci

Niccolò Palumbo e Lorenzo Catucci

Particolare di sala

Particolare di sala

«Qualche mese fa un amico ci contatta per collaborare assieme ad altri chef alla produzione di un libro sul tema della cacio e pepe. Un piatto di cui esistono mille rivisitazioni e da cui non è semplice creare qualcosa di interessante. Ci siamo tirati su le maniche e pensato di giocare su quelli che sono alcuni pilastri della nostra filosofia di cucina: materie prime del territorio, riutilizzo degli scarti di lavorazione e tecniche che tendono a concentrare i gusti». Così Niccolò inizia a raccontare la storia del piatto, mentre la cena giunge al termine e la tavola viene inondata di piccoli bocconi dolci, tra cremini, gelatine alla fragola, macaron al cioccolato bianco e lime e tartellette di yogurt e albicocca accompagnati da una doverosa tazzina di caffè.

Il primo punto è la ricerca della materia prima del territorio, fondamento di Paca sin dall’apertura. Tra i fidati e intimi fornitori dei ragazzi c’è Rachele Petrucci, proprietaria dell'azienda agricola dedicata alla nonna Verdetti Catia, una piccola realtà in provincia di Pistoia che lavora in modo etico e appassionato producendo un pecorino della montagna pistoiese (presidio Slow Food) di rara bontà.

Ogni volta che un cliente chiede l’assaggio dei formaggi, nella degustazione il pecorino di Verdetti Catia c’è sempre. Un triangolo bello e buono, sapido e pungente di cui spesso avanzano dei ritagli poco presentabili. Cosa farne? Ecco che entra a gamba tesa nella ricetta il secondo punto fermo della filosofia di Paca: il recupero degli scarti.

«Solitamente conserviamo sottovuoto croste e scarti del formaggio per poi utilizzarli per produrre un simil fondo bruno, non di carne, ma di formaggio. Li facciamo cuocere in acqua bollente aggiungendo ghiaccio ogni volta che si abbassa il livello saltando la fase della tostatura in quanto il sapore del succo che otteniamo è già persistente e saporito», approfondisce lo chef. Una volta filtrato, il succo viene lasciato una notte in frigo così da far separare la parte grassa. Quest’ultima, scarto dello scarto, viene reinserita nel piatto nella fase di mantecatura mentre il fondo diventa l’acqua di cottura della pasta.

Sembra tanto ma non è ancora tutto. La cacio e pepe di Paca non ha pepe al suo interno: al suo posto arriva la santoreggia. «Ci siamo ricordati che i vecchi chiamano la santoreggia erba pepe, e a ragion veduta! Quest’erba sa davvero di pepe. D’altra parte, per raggiungere il medesimo livello di forza ne serve molta, allora abbiamo deciso di aiutarla un pò, seccandola e tostandola in padella di ferro fino quasi a carbonizzarla». Il risultato è una polvere in tutto simile al pepe nero grattugiato.

Il benvenuto della cucina

Il benvenuto della cucina

Passatelli di capasanta, cozze, zafferano e scamorza affumicata

Passatelli di capasanta, cozze, zafferano e scamorza affumicata

Il pecorino c’è, il “pepe” c’è, manca la pasta. Entra in scena il Pacchero Monograno Felicetti, un formato agile, ideale da cuocere direttamente in padella col fondo di pecorino. «Lo lasciamo volutamente al dente, anzi "al chiodo" per dare tridimensionalità e corpo al piatto», avvisa Lorenzo mentre ultima il piatto a tavola. Con sicurezza lui stesso manteca la pasta nel pentolino dove il fondo di pecorino ridotto assieme all’amido della pasta crea una crema liscia e opaca. Aggiunge il “grasso” del formaggio prima messo da parte e completa il piatto con tre versioni della santoreggia: fresca, in polvere non tostata e in polvere tostata.

Il pentolino rimane al centro della tavola: guai a lasciare anche solo un millilitro di crema sul fondo. Per la scarpetta c’è un parallelepipedo di pan brioche, unto e saporito creato ad hoc per il gesto. E via, in pochi attimi sparisce tutto. In bocca e in testa resta uno spettacolo originale, memoria di un assaggio concentrato, profondo, contaminato e gentile dove le note amare e pepate dell’erba vengono avvolte dal sapore più rancido, nella sua accezione positiva, del pecorino.

La cena è solo a metà. I piatti precedenti e successivi sottolineano, ognuno a modo suo, i temi portati avanti dalla cacio e pepe appena condivisa a tavola. Ritrovate la tecnica al servizio del gusto nel servizio del pane, dove i grissini all’aglio e i cracker di mais e semi di sesamo diventano il letto perfetto per un velo di lardo di colonnata spalmabile; ritrovate il recupero degli scarti nell’antipasto a base di Trota, dove il pesce diventa brodo con i suoi scarti arricchiti di valeriana in salamoia e carpaccio di champignon e poi spiedino con la sua ventresca condita con olio e polvere di pino mugo, zenzero marinato e panna bruciata, mentre il “filetto” viene marinato sotto sale bilanciato e affiancato a yogurt, olio piccante e susina osmotizzata all'aceto e menta; ritrovate la novità e la complessità nel tortello di cervello, caviale e aceto di lamponi o ancora nel tacos di cecina ripieno di ragù di animella, scampo crudo e cetriolo condito con aceto di vino bianco.

Carne, pesce, vegetali, cotture, marinature d’impronta tanto italiana quanto asiatica (la moglie di Niccolò, anche lei in cucina, è di origini filippine) sono al centro della degustazione che si conclude con dolci di rara fattura e ricerca. La Ciliegia, di Bacchereto, che diventa meringa, gelatina e sorbetto, assieme alle chips e cremoso al cioccolato fondente, parfait e crumble alla nocciola, è solo una delle testimonianze della bravura del pasticcere Gabriele Palumbo, fratello di Niccolò.

Paca
via Frà Bartolomeo, 13
Prato
+3905741820222
Menu degustazione: 75, 90 e 130 euro
Chiuso domenica. A pranzo aperto solo sabato


Dall'Italia

Recensioni, segnalazioni e tendenze dal Buonpaese, firmate da tutti gli autori legati a Identità Golose

a cura di

Francesca Feresin

Romana di Trastevere, classe ’99, sin da piccola mangia fuori, ricercando tavole sempre più fuori dagli schemi. Studia Medicina al Policlinico Umberto I con l’obiettivo futuro di riuscire a coniugare le sue più grandi passioni: la cucina e la medicina.

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