Oggi Trippa festeggia due anni. Difficile, nello stesso arco di tempo, trovare un ristorante milanese di cui si è parlato di più. Un successo che è la somma di tante componenti.
La fascia di ristorazione in cui si colloca, innanzitutto: a Milano è molto più facile mangiare bene spendendo sopra i 50 euro (e mica sempre) che sotto. Trippa scintilla in una fascia di prezzo medio che meriterebbe molto più affollamento.
C’è poi il caso di comunicazione: si parlava di Trippa ben prima che tirasse su la claire. Merito di una squadra che ha saputo prima generare e poi tenere desto il tam tam. Altro fattore, la disinvoltura del team di sala: una volta dentro, si è travolti da un’energia particolare (a volte fin troppo anarchica). E poi c’è la straripante simpatia di un cuoco-oste che appare spesso in sala a enunciare i fuoricarta. Un ragazzo che è riuscito a far sbellicare di risate anche i francesi.
Tutto vero. Ma sono aspetti che rischiano di offuscare l’autentica forza del ristorante, i piatti. Il veronese Diego Rossi conosce bene entrambi i lati della medaglia: la cucina gourmet (è stato co-timoniere delle Antiche Contrade a Cuneo, una stella Michelin) e quella da trattoria. Mai indeciso, delle due ha scelto subito la seconda, a patto di poterne riscrivere alcune regole.
Trippa sta infatti nella nostra rubrica delle neo-osterie perché il ragazzo si interroga incessantemente sul format principe della ristorazione italiana, senza fossilizzarcisi. A partire dal reclutamento delle materie prime. La sua ricerca non s’arresta ai “comodi” presidi di
Slow Food o a quelli col bollino delle denominazioni: dietro alla maschera del
mona Rossi è uno che legge, ricerca e prova prodotti che si sono persi. O anche tagli di animali che a monte hanno visto più pattumiere che pentole o padelle.
Occorrerebbe (ma importa, in fondo?) chiedere ai nostri genitori se hanno mai avuto modo di assaggiare in gioventù trippe di rane pescatrici, testicoli di gallo, tube di falloppio di mucca, granelle di agnello, frontali di ricciola, ragnatele di vitello. Quinti quarti che fanno sì rumore per la stravaganza anatomica ma soprattutto godere per l’inaspettata carica di sapori. Che sono la risulta di una cifra tecnica elevata, un'identità spiccata e una missione che il ragazzo si dà ogni giorno: fare piatti buoni e democratici con le materie prime che tanti colleghi scartano.
Carne o pesce imperano ma saranno via via più sfumati perché sotto i tatuaggi da beccaio batte un cuore vegetale. Una vera tachicardia in inverno, la stagione di tante brassicacee: cavoli spigarelli, broccoli fiolari e cavolicelli salgono in paradiso. Contraltari freddi alle verdure che si trovano in carta ora col caldo: fagioli stringa lunghi quasi un metro, cocomerazzi, scopatizzi, olive precoci…

Da pochi giorni, Trippa apparecchia qualche tavolo all'esterno. Una buona notizia per chi non riesce a prenotare: basta arrivare all'ora dei tedeschi e sedersi (foto instagram)
Ingredienti che hanno come unico limite i confini del nostro paese, col suo incredibile campionario di preparazioni e ricette iper-tradizionali (a maggioranza relativa veneta) con cui il ragazzo non ha paura di confrontarsi:
sópa coàda,
pearà, risotto allo zafferano con midollo, trippa fritta, vitello tonnato,
vignarola,
cibreo,
pajata…
Un vocabolario popolare o in disuso cui
Rossi attinge per dare forma a piatti di bontà micidiale e spesso brutti. Sì, brutti, e mica s’offende se glielo dici. Perché non è incapacità se, in fase d’impiatto, lui pensa a tutto tranne che alle sintonie cromatiche, ai tagli fatti col bisturi o agli incastri ordinati di salse e solidi: «E’ un segno di rivolta contro la gastronomia di oggi», ci spiega il cuoco stesso, «esattamente come la canottiera che indosso al posto della parannanza da cuoco». E' importante, insomma, che si torni di nuovo a concentrarsi sulla bontà di un piatto, non sulla sua presentazione.
Non un compito da poco perché la seduzione dell'occhio è una regola che stabilì
Georges Auguste Escoffier e che ha segnato, inviolata, tutta l’alta cucina dal Novecento a oggi. Non però la tradizione dell’osteria italiana, che ha codici meno estetizzanti e più orientati alla centralità del sapore. Come quelli che ha riscritto con inchiostro nuovo
Diego Rossi nella rustica fotogallery che abbiamo raccolto.