Su alcuni account social, sono apparse critiche e irrisioni dopo l'intervento di Massimo Bottura alla cerimonia di premiazione dei The World's 50 Best Restaurants, a Torino. Ospitiamo qui un commento-replica, firmato dalla chef e pizzaiola Irina Steccanella.
Dove sarebbe andata la cucina italiana se non ci fosse stato Massimo Bottura? È una domanda che sembra retorica, ma non lo è affatto. Perché parlare di Bottura significa parlare di una frattura culturale, di un prima e di un dopo nella cucina italiana. Non ha solo cucinato: ha rivoluzionato il modo in cui il mondo guarda all’Italia gastronomica. Senza di lui, probabilmente la cucina italiana sarebbe rimasta ancorata a una bellezza rassicurante ma immobile, fatta di tradizione pura e tecnica impeccabile, ma senza il coraggio di mettersi in discussione. Bottura ha rotto quel muro con amore, con rispetto, ma anche con urgenza. Ha mostrato che si può innovare senza tradire, che si può trasformare una lasagna in un’idea, un ricordo in un piatto, un errore in una firma.
Lui ha portato la cucina italiana nel dialogo con l’arte, con la musica, con la filosofia. Ha dato un’anima concettuale alla nostra tradizione, rendendola attuale, commovente, universale. Ha fatto emozionare persone di tutto il mondo con un risotto al parmigiano, raccontando la nebbia dell’Emilia come fosse poesia.
E poi c’è l’impatto fuori dalla cucina: Bottura ha reso lo chef una figura pubblica con una missione. Ha unito etica e bellezza, lottando contro lo spreco con i Refettori di Food for Soul, dimostrando che la cucina può essere anche atto civile, sociale, politico. Ha parlato di inclusione, dignità, futuro.
Senza di lui, la cucina italiana sarebbe stata meno ascoltata, meno celebrata, meno considerata come cultura viva e pulsante nel panorama mondiale. E forse anche meno fiera di osare.

Massimo Bottura scatenato alla consolle del dj Benny Benassi, con John Elkann divertito alle loro spalle, durante l'after party della cerimonia dei 50 Best a Torino
Ha insegnato a una generazione di cuochi — e non solo — che la memoria non è un museo, ma un trampolino. Che le radici non sono catene, ma possono trasformarsi in ali. Che si può essere profondamente italiani guardando oltre l’Italia.
Massimo Bottura non è stato solo un grande chef. È stato — ed è — un catalizzatore. Un ponte tra ciò che eravamo e ciò che possiamo diventare. Senza di lui, saremmo comunque andati avanti. Ma forse con meno visione, meno emozione, meno coraggio.
C’è una strana tendenza, in Italia, a prendersela con chi ha successo. Ma quando il bersaglio è Bottura, si supera la soglia della critica: si entra nel campo della frustrazione. Lo accusano di essere troppo creativo, troppo artista, troppo “internazionale”, troppo espansivo. Insomma: too much! Quello che dà fastidio di Bottura non è il gusto, non è la tecnica, non è il linguaggio. È il coraggio. Il coraggio di prendere una lasagna e trasformarla in concetto. Il coraggio di andare nel mondo e dire: «Sì, sono italiano. Ma non sono qui per compiacervi. Sono qui per sorprendervi».
I suoi critici spesso non cucinano. Alcuni si nascondono dietro una tastiera o un microfono. Altri indossano una giacca da chef ma non hanno mai davvero osato. Perché osare significa esporsi, sbagliare, dividere. Bottura ha diviso. E, nel farlo, ha fatto crescere un’intera generazione. Criticarlo è facile. Inventare un piatto che racconta una storia, che emoziona, che resta nella testa e nel cuore… quello è un altro mestiere.
Alla fine, chi lo denigra non fa altro che confermare il suo impatto. Nessuno spreca fiato su ciò che è irrilevante. Bottura disturba perché ha inciso, perché incide. Perché è diventato simbolo. E i simboli, si sa, danno fastidio a chi non lo diventerà mai.