31-08-2025

Un fattore importante della ristorazione sono le relazioni che sei capace di tessere

Nel nostro lavoro di costante solitudine, le amicizie coi colleghi possono assumere un grande valore. Se impari a riconoscerle e coltivarle

Camerieri in competizione a Londra in occasione de

Camerieri in competizione a Londra in occasione della Waiter's Race, il 20 luglio 2025 (foto PA Media)

C’è una parte del nostro lavoro che non finisce mai davvero a fine turno. Non la trovi sulle schede tecniche e neanche nelle to do list di giornata. Non ha kpi. Ma pesa, plasma, resta. Riguarda le relazioni: non quelle coi fornitori o i superiori, ma quelle sottili e spesso irrisolte con colleghi e ospiti. Quelle che, nel tempo, possono diventare anche qualcosa di più.

Succede in modo naturale: una battuta condivisa in caffetteria, uno sguardo durante un servizio intenso, una mano data senza che fosse chiesta. Succede perché passiamo insieme più ore di quante ne dedichiamo a chi ci aspetta a casa. Perché certe notti, chiudendo la saracinesca, l’unico luogo che ha senso è un tavolo in 6, dal kebabbaro all’angolo, al chiosco dei panini o a mangiare quello che resta, con le mani ancora odorose di lime o fondo bruno.

In quei momenti ci sembra di avere accanto non solo colleghi, ma persone che ci capiscono davvero. Perché parlano la nostra stessa lingua: quella dei minuti contati, delle bruciature sulle mani, del sorriso da tenere anche quando vorresti solo sparire in cambusa. Nel quotidiano logorante di questo mestiere, l’amicizia tra colleghi può diventare una forma di salvezza.

Un patto non scritto dice: «Se oggi cado, tu mi prendi». Ma è davvero amicizia, o è solo la forma che prende il bisogno? Nel mondo dell’ospitalità – e lo sanno in pochi, davvero – si può arrivare a vivere di sola immersione. Nel lavoro, nei ritmi, nelle gerarchie, nei silenzi pesanti e nelle urgenze continue. E quando il mondo fuori si fa distante – gli amici che non capiscono gli orari, la famiglia che si stanca di aspettarti, le relazioni che si sfilacciano – allora è naturale cercare dentro il lavoro quelle connessioni che fuori non ci sono più.

Il collega diventa confidente, fratello, a volte persino specchio. E ti ci aggrappi senza accorgertene. Perché è l’unico che c’era quella sera in cui ti è morto un caro e non hai potuto prendere un giorno. È l’unico che ha visto quant’eri a pezzi quando sei entrato al lavoro fingendo di stare bene. È l’unico che ha capito che dietro la tua precisione ossessiva c’è solo il terrore di sentirti inutile. Queste relazioni esistono, e hanno un valore.


Ma è importante riconoscere che nascono spesso da un terreno vulnerabile: non sono finte, ma non sono nemmeno sempre stabili. Non perché manchi la sincerità, ma perché spesso mancano i confini. E in un ambiente in cui la fatica è quotidiana e la stanchezza emotiva si somma a quella fisica, è facile confondere presenza con profondità, routine con intimità, alleanza con amicizia.

Non c’è nulla di male nel cercare un senso dentro il lavoro. Anzi: è forse l’unico modo per non lasciarsi svuotare. Ma serve anche la forza di guardare in faccia quella dinamica che ci porta, a volte, a chiamare “amico” chi forse è solo qualcuno che non ci ha lasciati soli. E non è una colpa. È umano, profondamente umano. Ma è anche pericoloso, se lo si fa senza rendersene conto.

Forse allora, più che chiedersi se un collega possa davvero essere un amico, dovremmo chiederci: quale vuoto sta colmando quella relazione? Stiamo scegliendo quella persona per ciò che è, o per ciò che rappresenta dentro le nostre giornate piene e le nostre vite svuotate? E siamo in grado di proteggerla quella relazione, quando ci verrà chiesto di scegliere, di essere imparziali, di fare un passo indietro?

Nel mestiere dell’ospitalità, la solitudine è una presenza costante. Mascherata da turni pieni, da sorrisi di servizio, da mani che passano piatti. Ed è per questo che ogni legame che nasce sul lavoro ha un’intensità che a volte scavalca la logica. Non dobbiamo avere paura di queste relazioni. Ma dobbiamo iniziare a parlarne. Con lucidità, con cura, con rispetto.

Perché in fondo, anche questa è una forma di ospitalità: saper riconoscere i propri bisogni e non scaricarli su chi ci cammina accanto ogni giorno. E forse allora, nel riconoscerci più fragili, inizieremo anche a costruire legami più veri. Che reggono, anche quando il turno finisce. Anche quando, per una volta, decidiamo di non restare.


In sala

Il lato pubblico del ristorante visto dai suoi protagonisti: maître e camerieri

Dom Carella

di

Dom Carella

lucano, classe 1984, professionista con un'esperienza decennale come chef, bartender e manager, con Arkana Consulting oggi è consulente per lo sviluppo di alcuni importanti marchi di hotel, bar, ristoranti e chef

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