È una Milano vivace quella che Davide Oldani racconta a Istanbul, davanti alla platea affollatissima di Gastromasa - quarta edizione per il congresso d'alta cucina turco, una kermesse sempre più sfavillante, complimenti a Gökmen Sözen che l'organizza. «Expo è stato un segno di grande cambiamento per la mia città - ha spiegato lo chef del D'O - Pensiamo al tema dell'Esposizione: Feeding the Planet, Energy for Life. È stato un messaggio nuovo, forte».

Oldani sul palco di Gastromasa
La narrazione della città procede di pari passo con quella dell'evoluzione della cucina italiana, che è anche un capitolo della biografia di
Oldani: «Io faccio parte, in fondo, della Prima Repubblica della nostra tavola tricolore; ormai sono un vecchietto, la mia carriera è iniziata 30 anni fa sotto l'ala del Maestro per eccellenza,
Gualtiero Marchesi, colui che ha rivoluzionato tutte le prospettive almeno nella Penisola. E ci ha fatto capire una cosa: la cucina è da mangiare, ma anche da studiare e da capire. Significa impegnarsi molto, persino perdere un poco di vista la propria vita, per imparare ad amare questa professione. Però, vuol dire anche lavorare il giusto, non troppo: l'ambiente degli chef è e deve essere competitivo, ma "pulito". L'approccio deve essere: insegnare ai più giovani le tecniche ma anche le regole dello stare insieme; indicare loro le strade possibili. Per me, ad esempio, è quella della leggerezza».

A land where to place your feet and not just a sky where to place your dreams
Un atteggiamento molto lombardo, imperniato di pragmatismo. Come quando
Oldani fa proiettare sul maxischermo di
Gastromasa una sua frase, del 2003:
A land where to place your feet and not just a sky where to place your dreams, ossia "Una terra dove poggiare i piedi e non solo un cielo per i tuoi sogni". Commenta così: «Sognare fa bene a tutti, ma occorre sempre ricordare che veniamo dalla terra, e dunque lì dobbiamo restare, coi piedi».

Oldani con Alessandro Procopio
La terra di
Oldani è Milano, appunto, «una città che ha fatto un grande salto in avanti nel cibo, nell'accoglienza, nell'economia tutta, e ora è assai più elegante di quanto fosse in passato».Per questo dedica al capoluogo lombardo una sua creazione,
Milano nel piatto (così ribattezzata: a cena al
D'O di recente, era proposta come
Milanese 2019, leggi
Davide Oldani: l'arte, il design, i piatti 2018, il nuovo libro), che prepara davanti alla platea di
Gastromasa, come al solito col supporto di uno dei due sous chef, in trasferta con lui c'è
Alessandro Procopio. Spiega: «La cucina milanese è soprattutto autunnale e invernale, non ha molti colori, ma è davvero ricca di sapore».
Milano nel piatto è l'unione di tre delizie della tradizione ambrosiana: il risotto giallo, l'ossobuco e la cotoletta.

Milano nel piatto (foto Tanio Liotta)
Si parte col risotto, «tra l'altro ora lo zafferano si coltiva anche nella campagna meneghina...».
Oldani ne ricava una cialda di farina di riso allo zafferano. Poi l'ossobuco, «piatto "vecchio", un po' pesante». La soluzione è ridurlo in un fondo di ossobuco di vitello, con infusione di rosmarino e scorza di limone per richiamare la gremolada, il tutto racchiuso in un osso vero, di stinco, appositamente tornito da un artigiano di Cornaredo. Infine la cotoletta: un filetto (attenzione: filetto) di vitello tagliato a cubi viene cotto sottovuoto a bassa temperatura per 22-24 minuti a 75°, quindi arrostito, «già nel 1988
Gualtiero Marchesi adottò la soluzione dei cubi, lui li impanava».
Oldani no: il pangrattato arriva solo alla fine, è saltato a parte, poi aggiunto sopra a ogni singolo cubo per dare la nota croccante che s'accompagna alla straordinaria morbidezza ottenuta dalla cottura del filetto.

Milano nel piatto (foto Tanio Liotta)
Manca un tocco. «Negli anni Ottanta a Milano imperversava la fetta di limone, a lato del piatto. Veniva utilizzata per spremere qualche nota acida sul fritto, in questo caso sulla cotoletta». Un espediente retrò che non serve a
Milano nel piatto, che è bilanciato di suo. «A noi serve una nota meno acida: così prendiamo la buccia di limone, aggiungiamo purea di pera, diamo la forma», ecco la falsa fetta di limone, più dolce dell'originale. Rimane l'evocazione ma l'armonia è raggiunta.
«Io sono qui a Istanbul perché quello che noi cuochi italiani stiamo facendo è portare in giro la nostra identità. Non siamo migliori degli altri, ma sicuramente diversi, forse unici» (Davide Oldani)