Si può festeggiare: sono sei i ristoranti italiani tra i primi 50 del mondo secondo la World's 50Best, eguagliato il record già toccato tre volte, l'ultima nel 2011, quando però la classifica era molto meno "internazionale". Ma non basta: il risultato del 2022 è andato oltre quello di 11 anni fa, con due ristoranti nella top ten (Lido 84 e Le Calandre), la più alta nuova entrata dell'anno (Uliassi), e tutti e sei i nostri rappresentanti nelle prime 29 posizioni.
Sei grandi maestri di cucina, sei locali, sei regioni (Piemonte, Lombardia, Veneto, Trentino Alto Adige, Marche e Abruzzo): uno spaccato convincente di cucina tricolore che sa farsi apprezzare nel mondo (e ricordiamo che l'emiliana Osteria Francescana di Massimo Bottura è ormai fuori competizione, come tutti i locali che hanno già ottenuto un primo posto assoluto).
Ecco allora a voi i ritratti degli chef che fanno inorgoglire l'Italia.
n. 8
RICCARDO CAMANINI - LIDO 84
«Discreto. Erudito. Incompreso. Tre aggettivi che vanno a pennello a
Riccardo Camanini. E che spiegano forse perché, di tutti i
Marchesi Boys, è il solo a occupare poco o mai le luci della ribalta», scrisse per noi il giornalista
Andrea Petrini, ai tempi in cui questo ragazzo cucinava asserragliato nel silenzio di
Villa Fiordaliso, «Eppure c’è del poeta nel
Camanini, nel suo sapiente rispetto dei prodotti, nel mai saccente dispiegamento della tecnica che, oltre a far faville, rispetta la parte di mistero di ogni piatto. E che freschezza, che nitore del gusto nei suoi piatti». È un modo efficace per sintetizzare il lavoro di un fior di professionista, assurto a maggiore visibilità nel 2015, l’anno in cui si è insediato in tutto relax al
Lido 84, con le onde del Garda placide fuori (e la stella Michelin accesa subito appena sopra). L’approdo tutto da scoprire di un percorso che ha inizio più molto tempo prima, quando mette in tasca il diploma di cuoco all’Istituto Tecnico Alberghiero di Darfo Boario Terme (Brescia). «Ma la mia esperienza», ha spiegato lui, sempre modesto, «è iniziata dall’incontro con grandi maestri che hanno saputo indirizzare il mio percorso di vita». Fine anni Novanta, i 2 anni e mezzo all’
Albereta a Erbusco: «Da
Gualtiero Marchesi ho esperito un nuovo modo di fare cucina. Una cucina che si fa arte, un’arte che reinterpreta il tempo e lo spazio, catalizzando l’aspetto materiale e quello spirituale, partendo sempre dal prodotto». Seguono importanti esperienze a
Le Manoir aux Quat Saison, 2 stelle appuntate sul petto di
Raimond Blanc, («Volevo approfondire i canoni della cucina classica francese») e una seconda «e più importante parentesi» a
La Grande Cascade di Parigi, a spiare il mestiere di chef
Jean Louis, braccio armato di
Alain Ducasse. Dai 24 ai 40 anni, si è detto, la grande esperienza da chef a
Villa Fiordaliso («Ho imparato qui l’organizzazione e il significato di responsabilità diretta di un gruppo di cucina»), alternata da brevi momenti formativi dietro a grandi insegne d’Europa:
Lucas Carton (3 stelle, chef
Alain Senderens),
Hélène Darroze (2 stelle),
Taillevent (3, con
Michel Delburgo);
Mugaritz nei Paesi Baschi (2 con
Andoni),
Hotel Vernet (2,
Alain Solivares) e anche da
Potel et Chabot, per capire i segreti della grande banchettistica.
n. 10
MASSIMILIANO ALAJMO - LE CALANDRE
«Non c’è verità se non quella contenuta negli ingredienti e i miei tentativi di capire i miei stessi piatti sono del tutto simili ai tentativi di chi cerca di interpretare ciò che faccio. La verità è dentro ed è ben nascosta, ma la cucina, che è uno dei mezzi per tentare di farla venire alla luce è semplice. Nel mistero di ciò che è ben celato, e che comunque reclama semplicità e leggerezza, c’è forse la radice di questo stupore». Il pensiero prima dell’azione e del gesto. Quello di
Massimiliano Alajmo, silente guru di una cucina alla ricerca del gusto nella sua essenza primordiale, senza fronzoli, senza costrutti pleonastici. Finalizzazione e stoccata sul percorso mobile della plurisensorialità. Una storia giovane che ci appare più lunga di quanto non sia: quella di un atelier artigianale da cui parte uno stile fatto di sobrietà, eleganza, talento, virtuosismo, estro, tutto condito da una tecnica evoluta nel tempo, pensata e ripensata per raggiungere la perfezione nella valorizzazione del piatto. Si arriva dove mente e gusto s’intrecciano per un modello che incastra meditazione e progettazione su architetture differenti che siano rigide, mobili o… sottomarine. Concetti che partono da un layout in cui nulla – la parte ingegneristica di giovin pasticcere gli è rimasta cucita addosso – è lasciato alla deriva caso e che per, limature, editing e riletture, arriva dove la materia è l’impianto su cui lavorare di cesello, adeguando la tecnica alle sfumature che la sfaccettano. Non la si vuole intaccare, solo valorizzarla e plasmarla verso un progetto che contempla passaggi d’alta esecuzione a “minimo” impatto. Non a caso lavora sull’acqua: uno dei più insoliti “conduttori”. Di certo il meno invasivo, sicuramente il più simbolico. Così, icasticamente, il pasticcere è diventato cuoco.
n. 12
MAURO ULIASSI - ULIASSI
Esistono molti modi per imparare a cucinare, c’è chi l’ha fatto sui libri, altri a scuola, altri ancora con mammà o per pagarsi gli studi.
Mauro Uliassi no, lui ha iniziato a familiarizzarsi nel bar dei genitori, fra le sottane delle clienti appollaiate sugli sgabelli, e ha proseguito in mezzo ai figli dei fiori negli anni ‘70 . Questo per dire che a cucinare alla fine si impara anche vivendo: niente lo dice meglio di quella faccia un po’ così... quell’espressione un po’ così... lo sguardo languido del marinaio navigato, fra l’hippy e l’esistenzialista, incorniciato dai riccioli pasoliniani. Lo scenario di questa storia è la costiera marchigiana, «il lato B della Toscana». Innamoratissimi, papà
Franco, ex camionista di estrazione contadina, e mamma
Bianca Maria, figlia di ristoratori, si affaccendano nel loro bar, con i pargoli
Mauro e
Catia che sfrecciano fra i tavoli. Fino all’età della ragione, quando il primo fa finta di studiare all’Itis per poi ripiegare sull’alberghiero, mentre la seconda, dalla bellezza leggendaria, studia informatica. L’alberghiero non è poi così male, caterve di donne fra un cicchetto e l’altro. Per la folgorazione però bisogna attendere il severo cordon bleu
Luca Capannari (diciotto ore di lavoro e non sentirle) e soprattutto le prove di seduzione con la moglie
Chantal, conquistata a colpi di manicaretti afrodisiaci. Forse il vecchio
Freud non si sbagliava quando parlava di libido, quella forza che sublimata conduce il cuoco all’arte, come
kundalini in transito fra i
chakra. Nel 1990, dopo una bella rosa di stage e di esperienze, apre finalmente i battenti il ristorante
Uliassi,
Mauro in cucina,
Catia in sala (nella foto eccoli con
Filippo, figlio di
Mauro, tanta gavetta in cucina e dal 2011 anche in sala). All’inizio è una cucina corretta, che già richiama file di clienti; presto diventa un ristorante gourmand con tutti i crismi del caso. «Le cose funzionavano, col gruzzoletto potevamo comprarci il fuoristrada o migliorare. E abbiamo scelto la sfida». Oggi quella scommessa vale tre stelle Michelin e altri punteggi siderali; merito del solido lavoro d’équipe di tutta la brigata, coautrice di una cucina di mare ludica, ipertecnica, scanzonata, rollercoaster fatto di variazioni ingegneristiche per mettere a soqquadro il palato.
n. 15
NIKO ROMITO - REALE
Settembre andiamo, è tempo di migrare: l’esortazione del vate deve essere risuonata più volte alle orecchie di
Niko Romito, giovane chef abruzzese dal cammino tortuoso come i
tratturi di queste parti, avanti sempre avanti verso i pascoli del successo. Fra il parco nazionale della Maiella e quello dell’Abruzzo, la sua Rivisondoli è un nome scritto in piccolo sulle cartine geografiche: all’anagrafe conta 684 anime ed è probabilmente un record per un ristorante due stelle. Qui i genitori di
Niko nel ’96 decisero di riconvertire la loro piccola pasticceria in una trattoria, con papà
Antonio ai fornelli.
Niko no, era a Roma intento a studiare economia, non senza coltivare svagatamente l’hobby della cucina in qualche corso. Due anni dopo però il padre si ammala: c’è da fare le valigie e rimboccarsi le maniche, e lui lo fa con la complicità della sorella
Cristiana, che guida tuttora la sala. Da autodidatta totale si presenta a qualche corso all’
Étoile di Sottomarina e compie stages decisivi al fianco di
Valeria Piccini e
Salvatore Tassa. Le sue matrici sono quelle: una cucina centroitaliana gustativamente travolgente, che non si perde in chiacchiere o rovelli tecnoemozionali, ma coniuga l’afflato epico con l’impronta di una personalità generosa. Di che regalare alla regione la sua prima stella Michelin, valorizzando prodotti evocativi di una mitica cucina di montagna. L’agnello di razza sopravissana, la capra stufata e il pancotto del
Reale raccontano con il piglio delle grandi narrazioni la
koinè della transumanza fra Puglia, Campania e Abruzzo, dove i pastori sostavano per quattro mesi, da maggio a settembre. Ma il
tratturo di
Niko successivamente ha conosciuto una decisa virata, simile a quella compiuta nell’ocra delle terre di Siena dal quasi coetaneo
Paolo Lopriore. Da una cucina “figurativa”, impostata sulle specialità tradizionali, all’astrattismo di piatti contaminati dall’avanguardia, con sapori ficcanti, presentazioni icastiche, ingredienti solitari e manipolazioni molto minimal. «Senza questo ritmo binario di territorio e cosmopolitismo vivrei la cucina abruzzese come un limite», spiega
Niko, nel quale
Carlo Petrini ravvisa un talento naturale eccezionale,
Paolo Marchi il nitore dei grandi palati. Un talento che da fine primavera 2011 opera a Castel di Sangro, 10 km a sud di Rivisondoli:
Niko ha acquistato il monastero cinquecentesco di
Casadonna e l'ha ristrutturato. Non c'è solo un grandissimo ristorante e comode stanze, ma anche un scuola di cucina per aspiranti chef. Tutti progetti che gli sono valsi 3 stelle Michelin, trono raggiunto nel novembre 2013.
n. 19
ENRICO CRIPPA - PIAZZA DUOMO
Le stelle sono tre, ma i piedi restano ben piantati per terra, fra i filari di nebbiolo che pettinano le colline delle Langhe. E la testa non fora il manto delle nuvole ma resta china sul pass, nella chirurgia che anima il teatro delle ombre sul piatto. È il momento di
Enrico Crippa, inutile negarlo, lui così schivo, riservato, gentile, il pizzetto ottocentesco a tirarci fuori da tempi concitati, la figura volatile come le armonie più imponderabili. Una leggenda agguantata senza strepiti o squilli di fanfara, con la disciplina interiore e l’acribia intransigente di un monaco zen. Chi ha seguito la sua traiettoria, dal paesino brianzolo che gli ha dato i natali al sodalizio plurilaureato con la famiglia
Ceretto, lo vede nitido nel vorticare degli stimoli, irrimediabilmente se stesso nella messa a fuoco dello scatto. Il suo stile cangiante, renitente a qualsiasi semplificazione, impermeabile alle mode del momento, dalle scarnificazioni boreali ai primitivismi avanguardisti, al mantra della semplicità e del prodotto, era già presente in nuce nei primi, acerbi passi mossi in via Bonvesin de la Riva, dove prese l’abbrivio per circumnavigare la gastronomia fino a ritrovare il sentimento di casa. Dei tanti insegnamenti di
Marchesi, per il quale ha firmato insieme a
Lopriore un epocale
Menu Oggi a Erbusco, ha selezionato innanzitutto il giapponismo, tema conduttore della
nouvelle cuisine. Che dopo le esperienze formative al fianco di
Willer,
Arabian,
Westermann, ha acquistato accenti intimi e risonanze da camera grazie a
Michel Bras, maestro assoluto di sensibilità, poesia e natura (qualità che condivide con un altro allievo eccellente,
Andoni Luis Aduriz). Per poi confrontarsi con le declinazioni pop e tecnologiche di
Ferran Adrià, iperattivo nell’import delle suggestioni nipponiche; nonché con i modelli originali durante 3 anni a Kobe e Osaka. Passato sotto traccia per gli anni ruggenti dell’avanguardia, nel 2003
Enrico Crippa è sbucato sotto il sole di Alba come il fiume Alfeo della mitologia: la sua cucina pura, incentrata sugli incantesimi gustativi di una manualità fatata (la migliore d’Italia a detta di
Bob Noto), rappresenta forse la più bella manifestazione del risveglio sensoriale della tavola contemporanea dall’anestesia concettuale anni Zero.
n. 29
NORBERT NIEDERKOFLER - ST.HUBERTUS
L'Alta Val Badia, regno di grande sci e superbe arrampicate, è anche un eccezionale angolo della gola tricolore grazie a più realtà in concorrenziale amicizia tra loro. Il
St. Hubertus, tre stelle Michelin, è il palcoscenico dello chef
Norbert Niederkofler, mente cucinante dell'hotel
Rosa Alpina, il relais della famiglia
Pizzinini sulla via principale di un borgo coccoloso. Quattro locali e niente mezza pensione per gli ospiti, liberi così di scoprire la cucina di
Niederkofler come di desinare in uno degli altri tre. Da qualche anno non c'è più la pizzeria perché il St. Hubertus è stato ampliato, splendono invece la
Limonaia (cucina di mare), la
Fondue Stube (fondute di formaggio o carne) e il
Wine Bar & Grill con piatti di carne e verdura alla griglia. Ma è chiaro che le impronte più evidenti,
Norbert le lascia nel
St. Hubertus. Impressiona nella sua cucina, un sud-tirolese della Valle Aurina, valle che da Brunico sale verso nord in direzione opposta rispetto alla Badia, non tanto la conoscenza delle materie prime e la padronanza delle tecniche (che, sia chiaro, in Italia è sovente un optional), quanto l'allegria e il garbo delle presentazioni, a volte anche l'ironia con cui capovolge una certezza. Prendiamo il
"Vitello Tonnato" St. Hubertus. Se un cuoco provetto aggiunge a un piatto arcinoto le virgolette e il nome del suo ristorante è per far capire al cliente che non sarà il solito vitel tonné di piemontese memoria. Qui abbiamo un capovolgimento del noto: intanto bocconcini che nella forma ricordano il sushi e non la carne sotto e la salsa tonnata sopra, e poi il vitello arrosto è ridotto a crema e poi avvolto da fettine di tonno crudo. Geniale e pure sensuale al momento di farne bocconi. E ancora la
Composizione di fegato grasso d'oca. Quattro idee streganti:
Trancio saltato di foie gras con créme brûlée alla mela e balsamico, un siderale giocare su toni dolci, ma mai dolciastri, e leggermente salati, sul grasso del fegato ma anche sulla pulizia della mela. E ancora
Risotto al pino mugo con faraona affumicata, Piccione di Bresse e animelle glassate e
Agnello della Val Badia al forno. Un campionario di grandi piatti ancora più appuntiti e socialmente responsabili da quando, nel 2013, ha deciso di seguire la filosofia
Cook the mountain, un grande progetto di promozione e valorizzazione della gastronomia montana, con tutto il suo indotto. E di fondare
Care's, primo congresso che s'interroga sugli orizzonti etici di un cuoco.