“Se in pieno 2017 siamo ancora qui a chiederci perché scrivere di cibo è considerato giornalismo di serie B è perché ben poco è stato fatto per dargli sostanza e serietà”: è l’incipit del pezzo scritto da Paolo Marchi, ideatore e curatore di Identità Golose, e uscito sul Corriere della Sera in edicola e online oggi (clicca qui per leggere tutto il suo intervento).
Marchi è stato chiamato – primo tra i critici e giornalisti enogastronomici italiani – a partecipare al dibattito avviato da Angela Frenda, food editor del Corriere della Sera e responsabile della sezione cucina di Corriere.it: un’iniziativa brillante e doverosa giunta alla sua terza puntata, prima di Marchi avevano detto la loro due mostri sacri del giornalismo food statunitense come Michael Pollan, docente di giornalismo a Berkeley e noto come autore di libri-inchiesta sul cibo, tra cui Il dilemma dell'onnivoro e In difesa del cibo, e Amanda Hesser, a lungo food editor al The New York Times, quindi cofondatrice e amministratore di Food52.

Angela Frenda sul palco di Identità Milano con Antonia Klugmann
Spiega
Angela Frenda: “Abbiamo deciso di aprire un dibattito sul
foodwriting. Perché ci siamo resi conto che in Italia è considerato ancora giornalismo di serie B. Serve allora una riflessione su chi vogliamo essere, per capire in che direzione crescere. Consapevoli di muoverci in un ambito che racconta la vita di tutti noi. Provarci, per il
Corriere, è una sfida doverosa. E lo è anche per altri quotidiani autorevoli: il
New York Times ha appena rilanciato, a pagamento, il sito e l’app
Nyt Cooking, gioielli da 10 milioni di utenti al mese. Forse il cibo non è un tema così banale? Lo abbiamo chiesto a
foodwriter italiani e stranieri particolarmente rappresentativi. Ogni venerdì pubblichiamo il loro contributo”.
Marchi non si è fatto pregare e ha esposto la sua tesi, che si può riassumere così.
SERVONO CULTURA E ACUME, scrive Marchi: “Un grande gastronomo come Livio Cerini di Castegnate ricordava che non basta digerire bene per giudicare piatti e ristoranti, servono cultura e acume critico”. Un concetto ancora non ben digerito – appunto – soprattutto in Italia, “dove i più sono portati a pensare che chi ha successo non è per meriti ma per favori e intrallazzi. Ovviamente il successo altrui, il loro quarto d’ora al sole è immacolato”. Questo, perché scrivere di food è considerato spesso una sorta di ambito premio, senza considerare cosa c’è dietro: “Nessuno nelle redazioni invidia, giustamente, chi scrive di nera e di tragedie o in estate viene mandato a fare il pezzo sulle code in autostrada. Tutti vorrebbero invece essere critici musicali quando a San Siro suona Bruce Springsteen o seguire Milan, Juve o Inter in una finale europea o cenare in un locale, a patto sia stellato e gratuito. Non è così che deve essere. Per arrivare ai massimi livelli c’è la gavetta, ci sono libri da leggere e guide da consultare, c’è un mondo da visitare perché si mangia bene ovunque ed è bene saperlo, ci sono tentazioni a cui resistere e postacci in cui accomodarsi”.

NON E’ UNA PASSEGGIATA, insomma, “è troppo facile visitare solo luoghi graditi, mangiare dove ci piace evitando magari l’etnico perché non lo comprendiamo. Se sei davvero — o vuoi essere — un
foodwriter o un
food critic di professione mangi tutto e giudichi tutto. Sempre con umiltà, sempre pronto a chiederti se magari sei tu che non capisci”.
RICERCA E UMILTA’ SONO FONDAMENTALI, “se stai muovendo i primi passi, i ristoranti pluri-premiati li visiti per affinare la tua capacità di giudizio, salvo concentrarti nella ricerca di nuovi talenti che cresceranno assieme a te. (…) Non si scrive di cibo per poter chiamare un giorno Bottura per nome, Massimo. E nemmeno si usa la tastiera come un manganello per mettersi velocemente in mostra a spese di chi è ristoratore di professione”.
OCCORRE SERIETA’, anche perché “la ristorazione, le produzioni agroalimentari, il turismo enogastronomico generano economia. Grandi cuochi e formidabili ristoranti, vini importanti e prodotti di qualità, mete golose e la facilità di muoversi sul territorio sono tessere di un mosaico che per crescere e prosperare ha bisogno di un giornalismo serio, competente e appassionato”.
Auspici che richiamano quelli già fatti propri, nelle precedenti puntate del dibattito sul
Corriere, da
Pollan e
Hesser. “Possiamo avere pezzi di food molto utili, non solo in termini di «servizio» ma in termini molto più ampi: il
foodwriting, infatti, può aiutare le persone a prendere decisioni sempre più consapevoli sulla propria alimentazione, può mostrare loro come queste scelte possono cambiare il mondo e, di fatto, può influire sul mercato, sulla politica, sugli stili di vita – ha evidenziato il primo,
leggi qui - Basti pensare a come si sono spostati i consumi negli ultimi anni e a come un intero settore, quello alimentare, sia cambiato per seguire queste nuove abitudini. In gioco, insomma, quando si scrive di cibo c’è molto più di una ricetta. A patto che il giornalista
food sia consapevole del suo ruolo” perché “il cibo non è un argomento singolo, un settore chiuso, ma è piuttosto una chiave d’accesso per riflettere su tutto, dall’ecologia all’identità nazionale”.
E la
Hesser (
leggi qui): “Il cibo non è solo piacere. Le persone finalmente l’hanno capito: è collegato alla politica, all’ambiente, ai valori culturali, alla storia, all’arte. A tantissime parti importanti della nostra vita”, per cui ecco le regole auree per il buon
foodwriter: “Siate prima di tutto dei mangiatori curiosi e ambiziosi. Esplorate, appena ne avete l’occasione, nuovi posti e assaggiate nuovi piatti. La stessa cosa si potrebbe dire della vostra cucina: cimentatevi con ricette nuove. Poi: preoccupatevi di raccontare una buona storia, non focalizzatevi solamente sul cibo. E queste storie cercatele al di fuori del piccolo mondo del food. Se state scrivendo ricette, prendete il lettore per mano e siate minuziosi. Siate anche convinti di quello che fate, e sostenetelo. Infine, punti bonus per chi ha un buon senso dell’umorismo!”.