Pensare all’indimenticabile Giacomo Tachis, viene subito in mente la Toscana. Ma il celebre enologo italiano, scomparso poco più di due anni fa, si era innamorato anche della Sardegna, del Sulcis. E il suo segno, profondo, in questa terra è tuttora vivo e scalpitante, per una rivoluzione che ha avuto inizio dalla Cantina di Santadi e che continua, con tanta sperimentazione, anche oggi.

Il presidente di Santadi Antonello Pilloni
Questa è la strada segnata per questa splendida cantina cooperativa, nata nel 1960, che conta di 200 soci per complessivi 600 ettari vitati e per una produzione che si aggira attorno al milione e 700mila bottiglie all’anno.
La rivoluzione, iniziata a metà degli anni Settanta con l’arrivo di un nuovo consiglio di amministrazione guidato dall’attuale presidente della Cantina, Antonello Pilloni, ha un obiettivo preciso: innovare mantenendo le radici ben salde nel territorio. Che significa: produrre vini che parlano di Sardegna, senza rimanere ancorati solo alle tradizioni, ma con una produzione di alto livello che possa guardare ai mercati moderni.

Alcune delle anfore utilizzate per parte dell'affinamento
Due concetti che sembrano così lontani, tradizione e modernità, che in questo caso vanno a braccetto. E che poi trovano un ulteriore sviluppo in quello che è
AgriPunica.
L’azienda Agricola Punica, infatti, è una realtà che nasce proprio per il rapporto nato tra Tachis, Pilloni, e la Sardegna. Inizia l’arrività nel 2002 con i terreni nelle zona di Barrua e Narcao, ed è di proprietà al 50% di Santadi e al 50% del gruppo di Tenuta San Guido. L’idea è semplice: mantenere l’identità sarda aggiungendo un pizzico di fascino internazionale. In pratica, nelle 300mila bottiglie annue di produzione, si può “leggere” la filosofia di Tachis, che ha portato un affaccio internazionale ai vitigni autoctoni.

L'esterno della Cantina di Santadi
Queste scelte, sia di
Santadi che di
AgriPunica, sono state vincenti. E hanno tracciato un percorso anche per altre realtà che, visti i risultati, hanno intrapreso una strada di qualità che porta, necessariamente, a investimenti importanti.
Una delle notevoli spese di Santadi, per esempio, riguarda l’affinamento: nella cantina, infatti, si trovano 2.400 barriques.
Ma non solo: ci sono anche anfore in terracotta toscana, per una sperimentazione, iniziata una decina di anni fa, che sta dando ottenendo risultati positivi: il
Carignano che affina in anfora per 12 mesi viene poi assemblato al corrispondente
Carignano che ha riposato in barriques per andare a realizzare il
Terre Brune, il vino di punta dell’azienda. «Questa è l’etichetta bandiera di Santadi – spiega
Raffaele Cani, direttore della cantina cooperativa – Nato nel 1984, è il primo vino barricato della zona. Bisogna pensare che la considerazione che il consumatore nei confronti dei vini sardi non era molto elevata, in quanto si pensava che fossero tutti squilibrati. La svolta è giunta con l’arrivo di
Giacomo Tachis».

Il direttore di Santadi, Raffaele Cani, mostra con orgoglio la bottiglia di Terre Brune del 1984
Si tratta di un
Carignano in purezza (denominazione di Carignano del Sulcis Superiore) che affina per 18 mesi in barriques: è un prodotto che come dimostrato la mini verticale che ci è stata proposta (2013, 2008 e 2001) ha bisogno di tempo per esprimersi al meglio, pur avendo fin da subito un’ottima bevibilità.
Terre Brune nasce con un’anima moderna, ma che permette al vitigno di esprimersi al meglio. Così il calore, la potenza, e le lievi spigolature del 2013, nel 2008 diventano sentori balsamici, il tannino si smussa e in bocca rilascia ancora un retroalfattivo di frutta. Il 2001 è un’espressione grandiosa di questo vino: il
Terre Brune cambia faccia, ed escono le note muschiate, ancora balsamiche, di erbe selvatiche e medicinali, ma ancora frutta matura. Grande complessità, ma anche grande eleganza. «E’ l’elevazione a nobiltà del
Carignano», chiosa
Raffaele Cani.
A fianco, tre annate (2013, 2009 e 2003) di
Barrua di
AgriPunica: in questo caso si ha l’85% di
Carignano, il 10% di
Cabernet Sauvignon e il 5% di
Merlot. Qui lo stampo
Bordolese, o forse è meglio parlare di un “fil rouge” con la Toscana di
Bolgheri, è evidente. Come ricordato anche da
Massimo Podda, commercial manager di
AgriPunica, «la prima annata è stata proprio il 2002. Il vino viene affinato 18 mesi in barriques di primo e secondo passaggio, poi riposa 3 mesi in vasca e conclude il suo percorso con almeno 10-12 mesi di bottiglia. Si chiama
Barrua, perché è il nome di una frazione di Santadi, dove Agripunica ha i vigneti. Si tratta di un
Igt Isola dei Nuraghi, anche se potrebbe tranquillamente essere classificato come Doc. Ma è una nostra scelta».

Le barriques per l'affinamento
Se il taglio internazionale, in fase di degustazione, è netto per quanto riguarda l’annata 2013, con le morbidezze del
Merlot che accompagnano le note erbacee e fresche, il 2009 vede una prima trasformazione, dove i vitigni internazionali iniziano a lasciare spazio all’anima sarda del vino, a quel
Carignano che regala note fruttate e balsamiche. L’annata 2003, infine, fa comprendere come nel tempo
Merlot e
Cabernet Sauvignon diventino solo dei complementi: del taglio internazionale marcato che si poteva trovare nel 2013 rimane il ricordo, lievi sentori di sottofondo, mentre escono le complessità, la parte di cuoio, spezie, erbe medicinali, macchia mediterranea. Insomma, esce ancora di volta la Sardegna. Ed era questa la finalità ultima, la potenzialità che per primo
Giacomo Tachis aveva visto in questo straordinario territorio.