16-07-2023
Matteo Aloe, classe 1986
Continua su queste pagine il dibattito che abbiamo voluto lanciare sul futuro della cucina d'autore. A cui ha dato il via un articolo introduttivo (Quale futuro per la cucina d'autore? Noi d'Identità lanciamo il dibattito, fissando qualche paletto), a cui sono seguiti l'intervento di Luis Andoni Aduriz (leggi qui) e quello di Chicco Cerea (leggi qui). Nell'articolo di oggi spostiamo solo in parte l'obiettivo, per parlare con Matteo Aloe, fondatore, con il fratello Salvatore, di Berberè, che dal 2010 propone un approccio "d'autore" alla pizza.
Se ci chiediamo quale possa essere il futuro della ristorazione d'autore, e quali le strategie migliori per mettere in atto una gestione lungimirante di un'impresa ristorativa, anche in un periodo storico complesso come quello che stiamo attraversando, Matteo Aloe è certamente un interlocutore interessante: come prima cosa per l’esperienza maturata in più di dieci anni alla guida del gruppo Berberè, partito nel 2010 e cresciuto a passo regolare, arrivando oggi a essere presente con 15 locali in 7 città italiane, oltre a due sedi a Londra.
Ma non solo per questo: Aloe è un appassionato di ristorazione a 360°, fin da quando era un ragazzino che al padre chiedeva di regalargli i volumi de La Grande Cucina Italiana di Gualtiero Marchesi. La stessa passione che poi l’ha portato a fare esperienze e stage in cucine importanti come il Joia, in Italia, e il Noma a Copenhagen. E ancora, Matteo Aloe si è laureato in Economia con una tesi dedicata proprio alla mancanza di cultura manageriale nella ristorazione italiana.
Dopo una lunga e approfondita conversazione, abbiamo riassunto alcuni degli spunti che ci sono parsi più utili e interessanti, lasciando interamente la parola al nostro ospite, che ringraziamo per la generosità dimostrata nel raccontare il suo pensiero.
Salvatore e Matteo Aloe
«Quando abbiamo lanciato Berberè, nel 2010, avevo 24 anni, mentre mio fratello Salvatore ne aveva 31. In questi tredici anni il panorama della ristorazione è cambiato davvero tanto e non solo pensando al punto di vista degli addetti ai lavori, ma anche rispetto all’utenza e quindi al mercato. Sicuramente oggi si mangia molto di più fuori casa, soprattutto i giovani. Un cambiamento che ha riguardato molti aspetti della ristorazione e del suo mercato: se ripenso alla mia tesi di laurea, che scrissi nel 2008, prendevo come esempio positivo Davide Oldani e la sua “cucina pop”, che segnava il desiderio di rendere più popolare, più accessibile, la cucina d’autore. Anche grazie alla grande esposizione televisiva, l’alta cucina è diventata gradualmente di massa: non per l’accessibilità, ma per la sua visibilità.
Anche per quanto riguarda il panorama della pizza italiana in questi anni sono cambiate molte cose. Quando siamo partiti con Berberè avevamo pochi punti di riferimento: Bonci, che aveva iniziato a lavorare in modo diverso sugli ingredienti delle sue pizze al taglio e anche sugli impasti; Simone Padoan, che proponeva pizze di altissima qualità, rompendo gli schemi e aprendo nuove strade; infine, a Napoli, Enzo Coccia, che stava iniziando a innovare la pizza napoletana. Avevamo studiato questi esempi, convincendoci che c’era spazio, nel panorama della pizza italiana, per un approccio che ne elevasse la qualità e la proposta».
«Quando con mio fratello parlavamo delle nostre idee imprenditoriali, io spingevo sull'obiettivo di diventare un cuoco, mentre lui insisteva sulla pizza: motivava questa scelta con quella che possiamo chiamare un’analisi di mercato: a Bologna era impossibile mangiare una pizza davvero buona. Alla fine ho ascoltato mio fratello: il nostro obiettivo era creare un locale contemporaneo che proponesse la pizza migliore possibile. In quel periodo andavamo già un paio di volte all’anno a Londra, per comprendere i meccanismi di una ristorazione più organizzata e strutturata, avevamo in mente quel tipo di benchmark. Evidentemente, siamo stati capaci di incrociare una domanda di mercato che forse non era ancora così esplicita, ma che si stava sviluppando velocemente.
All’inizio non è stato semplice, ma noi ci abbiamo creduto e abbiamo tenuto duro: il nostro primo locale era in un centro commerciale, succedeva spesso, nei primi tempi, che le persone entrassero, guardassero il menu e uscissero poco dopo. Però nel giro di poco tempo ci siamo conquistati una clientela che arrivava anche da fuori Bologna per venire a mangiare la nostra pizza».
«Sia io che Salvatore siamo laureati in economia, lui con una specializzazione finanziaria e alcuni anni di esperienza professionale sul campo, io con una specializzazione in marketing. Avevo scelto di laurearmi in economia perché già pensavo che quel tipo di formazione mi sarebbe stata utile per la gestione di un ristorante. Sicuramente agli inizi eravamo inesperti, ma dal giorno uno avevamo molto chiaro che per concepire un menu si doveva fare un’analisi attenta del food cost, e quanto fosse importante programmare i pagamenti degli affitti, degli stipendi e delle varie tasse. Avevamo chiaro che la pizzeria che volevamo aprire avrebbe avuto costi più alti della media, perché avevamo bisogno di attrezzature specifiche, perché per il prodotto che avevamo in mente erano necessarie più ore di lavoro. Anche oggi è così, fare qualcosa di buono costa di più. Il tema degli ingredienti è forse quello più semplice e lineare da comprendere, ma nel bilancio di una pizzeria il costo delle materie prime può arrivare a rappresentare il 20% dei costi complessivi. Se sei bravo a raccontare il tuo lavoro, se la tua pizza è buona, riuscirai a giustificare il prezzo che chiedi per quei prodotti di qualità: non avevamo alcun dubbio sul fatto che quei costi in più ci avrebbero portato anche ad avere più successo.
Detto questo, gli extra-costi devono avere senso: l’esempio più semplice che posso fare, pensando ai nostri primi tempi, è la pizza al culatello. Era la più cara per noi e anche la più cara in carta: una pizza molto semplice, praticamente bianca con sopra un etto di culatello. Che però costava 90 euro al chilo, quindi sulla pizza c’erano 9 euro di culatello. I nostri margini di guadagno erano quasi nulli, nonostante la vendessimo a 18 euro: l’abbiamo tolta dalla carta dopo poco tempo, perché ci siamo accorti che era una scelta sbagliata, per la nostra comunicazione e per la sua ridotta marginalità. E’ un esempio semplice di quella che possiamo chiamare ingegnerizzazione del menu, che è un’attività fondamentale, che facciamo ogni giorno. Per me è anche la parte più divertente della ristorazione, perché ti costringe a ripensare sempre alle tue scelte: quello che è vero oggi, magari non lo sarà tra tre mesi, perché può esserci una crisi del prezzo del grano, perché per la crisi energetica può salire anche il prezzo dei pomodori… insomma, sono tanti i fattori che entrano in gioco».
«Berberè nel corso dei suoi 13 anni di vita ha già vissuto tre cicli diversi, fasi coincise con un cambiamento del logo delle nostre pizzerie. La prima fase è stata quella della partenza, dell’inesperienza, con qualche rapporto in più con la ristorazione, sia perché proponevamo anche piatti cucinati, oltre alla pizza, sia perché anche nella mise en place eravamo più vicini al format di un ristorante. Poi nel 2015 abbiamo fatto Expo, che è stata un’esperienza molto importante per noi, anche perché ci ha fatto capire con riscontri molto evidenti che la pizza era il nostro punto di forza. Così quando, quello stesso anno, abbiamo aperto il primo locale a Milano, ci siamo concentrati solo su questo prodotto. E nel 2016, dopo sei anni dal primo taglio del nastro, abbiamo scritto per la prima volta “pizzeria” sotto al nome Berberè, sancendo definitivamente questa scelta di identità per il nostro brand. Quello stesso anno abbiamo aperto a Londra, altro passo importante.
Nel 2020, nel periodo del Covid, c’è stato un ulteriore cambio di logo e un altro passo che ci ha portato essere sempre più una pizzeria, sempre più accessibili per i consumatori, aprendoci a un pubblico più ampio possibile: abbiamo messo i nomi classici delle pizze in menu. Prima non c’era la Margherita: la facevamo, ma la indicavamo solo elencando gli ingredienti, come per tutte le altre. Più o meno contemporaneamente abbiamo anche ammorbidito la nostra politica sulle richieste di cambiamenti alle ricette delle nostre pizze: ci siamo chiesti se valesse la pena essere rigidi scontentando alcune persone. Facendo i conti, circa il 5% della clientela chiede qualche modifica alle pizze in carta: è una piccola parte di pubblico, che così riusciamo a fidelizzare. Sono tutte scelte che facciamo, in ogni caso, con molta prudenza, ragionandoci magari per dei mesi».
«E' un tema su cui siamo sempre stati molto oculati, anche nella ricerca dei locali in cui aprire: per fare un esempio, a Milano volevamo sbarcare già nel 2013, ma abbiamo atteso di poter trovare il luogo giusto, che avesse un affitto e una buonuscita sostenibili per il bilancio di una pizzeria. A volte è necessario resistere alle tentazioni, se i numeri dicono che ti esponi a certi rischi. Nella gestione dell’azienda, con il numero di punti vendita che abbiamo ci siamo dovuti strutturare in modo molto attento: i responsabili del controllo di gestione sono figure molto importanti nella nostra organizzazione. Inoltre ci sforziamo al massimo per trasmettere la cultura della sostenibilità economica a chi lavora per noi. Cerchiamo, insomma, di fare formazione non solo su come fare una buona pizza, ma anche sull’oculatezza della gestione. Le pizzerie lavorano sui volumi, sulle quantità: quello che può sembrare un piccolo spreco, moltiplicato per tutte le volte in cui si ripete può diventare una perdita considerevole.
Sicuramente i nostri obiettivi in termini di qualità ci rendono la vita più difficile, e certamente il periodo attuale è complesso per tutti, non solo per chi fa pizza e non solo per chi lavora nel mercato della ristorazione. La nostra struttura aziendale però ci ha permesso di affrontare questo passaggio senza troppa fatica. Certamente in questi anni sono emersi molti più concorrenti di quanti ce ne fossero nel 2010: sono convinto che avere più competitor possa essere visto come un vantaggio sotto diversi aspetti. Credetemi, non è una frase a effetto, perché tenere alta l’asticella della concorrenza è sempre uno stimolo a lavorare meglio. Inoltre il fatto che ci siano altri professionisti che promuovono la ricerca della qualità anche nella pizza, diffonde questo tipo di cultura e questo non può che essere un vantaggio per tutti».
«Mi è capitato di rileggere circa un anno fa la tesi di laurea che scrissi nel 2008, parlando di managerialità nella ristorazione italiana: devo dire che per diversi aspetti rimane ancora attuale. L’esperienza a Londra ci ha fatto vedere delle differenze sostanziali rispetto all’Italia: lì si può entrare nel mondo della ristorazione facendo il lavapiatti e gradualmente crescere, arrivando a rivestire ruoli come lo store manager, l’area manager, a salire. Sono professionalità riconosciute e stimate. In Italia la figura del ristoratore è ancora percepita in modo diverso, le aziende spesso sono meno strutturate, con gestioni familiari, in cui mancano certe competenze. Lo store manager di una pizzeria con un milione di euro di fatturato, è il manager di un’azienda più grande della media, in Italia. Chi fa lo store manager di Berberè accumula esperienze e competenze gestionali ad ampio spettro: la gestione della clientela, del personale, le materie prime, i fornitori.
Voglio dire però anche una cosa a difesa del ristoratore medio: le marginalità nel mercato della ristorazione sono così ridotte che per un imprenditore non è facile investire, da un giorno con l’altro, su una figura manageriale come lo store manager, che non abbia anche altre mansioni. Capisco che ci sia prudenza su questi argomenti. Diciamo anche che in Italia sono davvero poche le università che offrono corsi di Service Management: siamo un paese che può vivere di servizi, di accoglienza, di ristorazione, verrebbe da pensare che ogni ateneo dovrebbe prevedere corsi specifici su questo tipo di managerialità. Ci serve diffondere questo tipo di cultura, perché sono convinto che ancora oggi una persona che si presenta e dice di essere il manager di una pizzeria, verrà vista in modo diverso rispetto al manager di un’azienda che produce bulloni. Questa disparità non dovrebbe esistere».
«La formazione è una delle voci che impatta di più sul nostro bilancio, anche perché, da un punto di vista tecnico, la nostra produzione ha una complessità tale da richiedere maggiore impegno per formare i nostri operatori. Per questo abbiamo deciso di investire su figure professionali specifiche: formatori, che hanno esclusivamente questo compito in azienda. Un aspetto molto importante da ricordare è che la formazione diventa un costo quando i lavoratori si fermano poco nella tua azienda: spendi per formarli e poi se ne vanno. Il nostro obiettivo è diventato quindi ridurre il più possibile il turn over dei dipendenti, creando un ambiente di lavoro sereno, trasparente, giusto. Così la formazione diventa un investimento per il futuro.
Infine, quando si parla di personale, si finisce sempre a parlare di costi. Diciamo però le cose come stanno: non è che in Italia il costo del personale sia il più alto d’Europa, quindi non è un problema che riguarda solo la ristorazione o solo il nostro paese. Se poi vogliamo fare un paragone con realtà come gli Stati Uniti… il nostro maggiore costo del lavoro equivale a diritti conquistati nel corso di decenni a cui non vorrei mai rinunciare. Non possiamo vedere tutto come un costo: la qualità della vita delle persone che lavorano con te e per te si tradurrà poi in qualità del loro lavoro nel tuo locale».
Recensioni, segnalazioni e tendenze dal Buonpaese, firmate da tutti gli autori legati a Identità Golose
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Giornalista milanese. A 8 anni gli hanno regalato un disco di Springsteen e non si è più ripreso. Musica e gastronomia sono le sue passioni. Fa parte della redazione di Identità Golose dal 2014, dal 1997 è voce di Radio Popolare Instagram: @NiccoloVecchia
Matteo Aloe in cucina con Fulminacci
Una combinazione di ingredienti di qualità, tecnica e magia... la pizza artigianale di Berberè